What if I say you're not like the others?


Point Particle è un blog nato per ospitare le idee e i pensieri di chiunque voglia scriverci. Nella sua pur breve vita, ha accolto e fatto leggere pezzi molto diversi, scritti da persone molto diverse. Pezzi che forse raccontano la storia di chi li ha scritti, o magari l'accarezzano soltanto. Frutti di un'ispirazione che a volte riesce a disporre le lettere una di fianco all'altra proprio in quel modo che ti fa provare qualcosa di speciale. Un'ispirazione che si è manifestata in persone normali, come te e come me. Persone che hanno deciso di condividere qualcosa con chiunque passasse di qui, anziché perdere i propri pensieri nei meandri della mente.
Perché chi deposita qualcosa in questa piccola banca non ha niente da perdere, ma chi apre questa pagina e legge qualche pezzo ha molto da guadagnare.
E allora... Buona lettura!

lunedì 20 dicembre 2010

HiKu

Slowly through August
this life of mine flows Over
never the same twice

martedì 14 dicembre 2010

Rafael

Le giornate calde e afose di luglio sono difficili da sopportare in campagna. L'aria è talmente pesante da consumare tutte le energie, persino respirare richiede uno sforzo.

È la seconda dura, durissima estate che Rafael passa in Italia, a lavorare nel “Ranch Cavalli Bianchi”. Più terribile del caldo asfisiante per un guardiano di cavalli c'è solo il grande freddo. A gennaio e febbraio quando il gelo ricopre ogni cosa e raggela ogni movimento, anche il più impercettibile.

Sono due anni che ha lasciato la sua terra, la sua famiglia, la sua vita, quella vera, quella fatta di affetti, di sogni, di speranze, anche di sconfitte e difficoltà, ma sempre condivise con le persone care; quella in cui il duro lavoro è ripagato la sera quando torni a casa, vedi il sorriso di tua moglie e ascolti le tue figlie che ti raccontano cosa hanno imparato a scuola.

É passato quasi un anno dall'ultima volta che è riuscito a tornare in Romania per qualche settimana, dall'ultima volta che ha visto le sue bambine. Nina, sua moglie invece è venuta a trovarlo da poco, è rimasta solo qualche giorno, ma quando le difficoltà impongono un tale sacrificio si impara ad apprezzare davvero il valore immenso racchiuso nell'espressione “solo qualche giorno”.

Ogni sera, dopo aver finito di distribuire il fieno, dopo dieci ore di fatica e di sudore, dopo aver cenato con la famiglia del suo datore di lavoro, Rafael attraversa il campo sabbioso per arrivare nel suo piccolo appartamento dietro alla selleria. Intorno a lui il buio e il silenzio, spezzato solo dall'abbaiare dei cani. È come una sorta di rituale che si ripete alla fine di ogni giornata, un breve momento incastonato nel percorso che va dal casolare all'edificio della selleria. In quel breve tratto di strada è libero di pensare a cosa non sopporta di questa vita. Spala letame due volte al giorno in ogni box, in ogni paddock e l'odore di cavallo è impresso sui suoi vestiti e sulla sua pelle. Ma non è questo: lui ama tutto questo, ama i “suoi” cavalli, gli unici amici in questa terra straniera, gli unici che non gli vengono incontro solo per dirgli di fare qualcosa, di essere più svelto, di medicare la zampa di Pablo e di aggiustare la staccionata, gli unici che non lo guardano con aria di sufficienza mentre sposta balle di fieno sotto il sole cocente, gli unici che se potessero parlare gli chiederebbero al mattino “come stai?”.

È questa indifferenza, questa patetica aria di superiorità, questa distanza che Rafael vorrebbe lavare via insieme all'odore di letame misto a fango o a terra nuda. Ma il sapone non basta.

Del resto manca ancora poco, qualche mese, un paio d'anni al massimo, e poi potrà tornare dalla sua famiglia per tornare a vivere una vita dignitosa e felice.

A centinaia di kilometri di distanza una bambina di 6 anni piange mentre sua madre le disinfetta il ginocchio dopo una caduta dalla bicicletta e la rassicura dicendole che quando si impara a pedalare è facile cadere, ma poi ci si rialza e ci si rimette in sella, il giorno dopo.

Suo padre non sa che è caduta, che ora è spaventata. Forse pensa che presto sarà lui ad insegnarle a pedalare e forse non si immagina la sorpresa che lo aspetta nel vedere che avrà già imparato. E anche se non sa cos'è, già lo assale il rimpianto di non aver potuto vedere quella prima caduta.

venerdì 10 dicembre 2010

Prison Break

E' da qui dentro che vi parlo, dalla mia angusta tana all'interno della prigione. Una fortezza a prova di fuga.
La prigione in questione, quella in cui sono rinchiuso, non esiste.
E' questo il motivo per cui è così difficile fuggire. Non ha sbarre, non ha celle, non ha guardie. Non ha nemmeno un perimetro di alte mura e filo spinato.
Nessuna pesantissima porta blindata. Non ci sono punti di riferimento al suo interno.
In realtà, non ha interno.
Da questa galera non posso scappare, però questo non significa che ogni tanto non ci provi. So che altre persone sono rinchiuse, le sento, le vedo, ma non sono lì con me. Li vedo dentro la gabbia, non so se loro vedono me. Tutti quelli che come me sono rinchiusi si dibattono e si disperano. Se te lo vuoi immaginare, è come uno dei gironi infernali. Burroni di rocce taglienti, fiamme cocenti che fanno indietreggiare. Sagome umane, sporche e incatenate, che si lamentano e si trascinano.
Sono da solo in tutto questo. In questa prigione posso muovermi liberamente, ed è proprio questo il motivo per il quale non posso andarmene. Ovunque io vada, sono sempre e comunque in trappola. Non c'è posto in cui non possa andare, stranamente però sono sempre dentro. Con fatica ho cercato molte volte un cunicolo per scappare e, quando ho creduto d'averlo trovato, l'ho imboccato, ma non sapevo che l'uscita era sempre la gattabuia. Anni passati tra rancore e tristezza, anni interi spesi ad escogitare piani di evasione per lasciarmi dietro la gabbia. Non potevo sapere che al di fuori della prigione c'è sempre la prigione.
Alcune volte, ero convinto di essere evaso, ero contento di aver trovato la libertà, fino a quando non sbattevo di nuovo la faccia contro le sbarre.
Sbarre che non suonano di metallo quando le batti.
Sbarre di fumo.
Sbarre che non esistono.
Sono rinchiuso in questa prigione perchè mi ci sento rinchiuso.
Non ci sono piantine o planimetrie di questo posto, è un labirinto che muta, che cambia i propri corridoi in base a dove mi sposto.
La prigione eterea.
La prigione eterna.
Non mi resta che provare un'ultima volta. L'ultimo azzardato tentativo di fuga di un prigioniero stanco. L'unica cosa che mi resta ancora da provare è di smettere di voler scappare.
Chissà, magari questa volta ci riesco.

lunedì 6 dicembre 2010

Colombia

Il mio viaggio in Colombia è incominciato un mese fa. Voleva essere un grandioso viaggio alla ricerca della sapienza di questo popolo martoriato per secoli, un popolo fatto di così tante diverse etnie ma unito da uno stesso destino. Seduta al tavolo del mio appartamento di Roma riesco distintamente ad assaporare i ricordi e mi sembra di tornare a camminare laggiù. Ad Aracataca si respira il profumo delle pagine scritte da Gabriel Garcìa Màrques, è come se si sentissero le voci dei Buendìa in ogni angolo della strada, come se fossimo magicamente approdati nel mitico villaggio di Macondo, dove in una casa fuori dal tempo si odono i sospiri di Amaranta Ursula e Aureliano. In questo posto magico, nelle strade su cui si affacciano i bellissimi balconi delle vecchie case coloniali, colorati dalle pennellate dei fiori, in cui si sente distintamente l'odore della guerra e della storia, in questo angolo di mondo in cui si vedono svettare alti fino a sfidare il cielo moderni grattacieli e poco più in là il degrado e il fango delle favelas, in questa terra incredibilmente carica di tradizione e di energia, qui ho cercato il senso della vita degli uomini.

Ho scoperto il profumo del Sole che sorge all'orizzonte e che accarezza i tetti delle baracche qui nei sobborghi, ho sentito il calore dei suoi raggi sulla nuda polverosa terra colombiana, ho visto i volti di donne talmente belle che anziché invidia o gelosia hanno suscitato in me solo ammirazione e incanto, ho visto mescolanze di colori tanto incredibili che non pensavo potessero esistere davvero, ho sentito la voce della libertà nei canti dei bambini che giocano a piedi scalzi, il calore dell'amore di una madre costretta dalla miseria a fare la prostituta e a vendere il suo corpo per far crescere suo figlio, il senso dell'autentica felicità nelle risate fragorose di due bambine che saltano alla corda e si divertono semplicemente così, anche sporcandosi i vestiti, senza il bisogno di avere costosi giocattoli e perfetti parchi da gioco.

Qui ho pensato di trovare le risposte a cos'è la felicità e a dove ci porta la ricerca del significato della nostra esistenza. Ho trovato lo sguardo di un vecchio seduto sul bordo di una strada e ho visto la luce incredibile che riflettevano gli occhi di quell'uomo che dalla vita non ha mai avuto nulla e non ha mai chiesto niente di più di quel nulla, perché in realtà forse lui ha avuto tutto.

giovedì 22 luglio 2010

Dentro Marilyn

Non mi sono mai lanciato con il paracadute.
Non per paura del vuoto, dell'altezza, della morte. Non l'ho mai fatto per paura di stare troppo bene. Perchè ho sempre immaginato che quella sensazione di mancanza di respiro che si avverte in discesa libera fosse il vero senso della vita. E vivere a pieno dopo la morte di Marilyn non mi è mai sembrato naturale.
Ora posso dirlo: non mi sono mai lanciato col paracadute perchè Marilyn è morta troppo presto. Per la sua morte non ho fatto niente che potesse regalarmi anche solo la più piccola emozione.

Per la sua morte non ho vissuto.

Ho toccato l'apice della mia vita a trent'anni e il resto dei miei giorni l'ho passato nel ricordo. Perchè stare con Marilyn è stata l'emozione più incredibile che un uomo possa possa mai pensare di vivere, ma senza di lei niente ha più avuto un senso compiuto.
Perchè Marilyn era la Bellezza, era la Passione, era la Pazzia dell'Uomo per una donna, lei era la Donna. Perchè Marilyn era la Vita e dopo di lei io non sono riuscito più a vivere.
Sono passati infiniti anni da quell'unica notte vissuta insieme. Non abbiamo fatto l'amore perchè lei stessa era l'Amore. Sono stato semplicemente dentro di lei, ma nel farlo non mi sono sentito appagato, pieno, soddisfatto. Perchè per sentirla mia totalmente Marilyn non sarebbe bastato possederla: avrei dovuto sostituirmi a lei, prendere il suo corpo, entrare totalmente in lei. O meglio: lei sarebbe dovuta entrare totalmente in me. Per sentirla totalmente mia, Marilyn avrei dovuto mangiarla.

Non l'ho fatto, non scherziamo. Non sono pazzo.

Ma quella notte, dopo tutto quel furore, lei si è addormentata tra le mie braccia. E aveva il viso di un Angelo. In un istante ho capito che Marilyn non sarebbe mai potuta essere mia per sempre, che una dea non sarebbe mai potuta stare con un uomo. Almeno, non con uno solo.
E allora la ammazzai.

lunedì 12 luglio 2010

Ducati

Un rombo assordante accompagna Un'ombra nera nella notte. La vedo per un istante. Poi scompare.
Fulminea. Lasciando dietro sé una scia di rumore tuonante. Quello rimane. Ne percepisco le vibrazioni nell'aria ancora dopo qualche minuto.
Un sogno. No, troppo veloce per essere un sogno.
Riccardo accarezzava il brivido pericoloso della velocità, mentre spezzava le barriere del vento e del tempo. Solo. Con la sua moto.
Non si rendeva davvero conto di sfidare quella linea sottile che divide quasi impercettibilmente la vita dalla morte, la corsa dal baratro, la suggestiva finzione dalla spaventosa realtà, lanciandosi tra le curve come verso il vuoto.
Il freddo congela le lacrime e imprigiona le emozioni dietro la porta del domani.
La percezione della velocità paralizza il dolore, lo lascia indietro, alla partenza, e da esso fugge in un attimo, e ogni attimo se ne allontana di più.
Passando fulmineo per le strade, poteva tenere il resto del mondo fuori dal casco: la paura, l'angoscia, la rabbia restano a guardare, come impietrite, come le case e come me, immobili, inermi, incapaci di sapere davvero cos'hanno visto passare.
Il tempo non esisteva più, o forse non era mai esistito in quel viaggio disperato.
Non esisteva nemmeno la rabbia, nemmeno il ricordo delle urla di quell'ultimo litigio. Non esisteva nulla. Assolutamente nulla.
Era l'unico modo per lasciarsi tutto quello che lo faceva soffrire alle spalle, come l'asfalto rovente dopo il suo passaggio. Era l'unico modo per dimenticare tutto per un istante, il tempo di quel viaggio. Solo per un attimo per sempre.
Così sfidava la notte. Sfidava il coraggio. Sfidava la possibilità di trovare soluzioni.
Sapeva però che non sfidava se stesso; da se stesso semplicemente fuggiva.
Si rifugiava in quella strana dimensione al di là del tempo e al di là delle emozioni solo per rifugiarsi dalla realtà.
Ma un viaggio come questo non può durare in eterno: la benzina prima o poi finisce, la notte prima o poi finisce,anche la strada prima o poi finisce.
E bisogna scendere. Bisogna respirare. Bisogna piangere. Bisogna anche urlare.
Ma tutto questo un pilota in corsa non lo sa, non può saperlo.
Perchè non può sapere nulla, non può sentire nulla se non il rombo spaventoso tutto intorno, non può vedere nulla se non il suo stesso viaggio.
Ad un tratto Riccardo vide un muretto. Lo vide all'ultimo. Solo all'ultimo.
Poi sentì solo che il rombo si era spento. Vide che la sua gamba era incastrata sotto la moto e ad un tratto iniziò a sentire il dolore. Il dolore di un pezzo di lamiera sotto il ginocchio, sì, anche quello.
Ma soprattutto il dolore silenzioso della sua anima, della sua vita. Quello che era rimasto fermo nel cortile di casa quando aveva acceso il motore, ma che come un'ombra invisibile gli era rimasto accanto, sempre a pochi passi dalla moto, come una spia ben addestrata, pronto ad assalirlo non appena si fosse fermato.

lunedì 5 luglio 2010

Finzione letteraria

Rubrica Che ne sarà del mondo? Di Elena Doni

Cari affezionati lettori, questo è l'ultimo articolo per questa rubrica che apparirà su questo giornale. Tra meno di quarantotto ore dirò addio a questa meravigliosa città guardandola farsi sempre più lontana e piccola dal finestrino di un aereo pronto a sorvolare l'oceano; direzione la piovosa, aristocratica, bellissima Londra. Mi sembra già di sentirne l'atmosfera addosso.
Questo è il mio ultimo articolo per New York.
Mi sembra impossibile dover scrivere per lettori che non siano “i miei” , arrivare la mattina in un ufficio diverso, senza quella piccola stampa rossa incorniciata sulla parete. Senza quel “vecchio” stereo sullo scaffale, ormai veterano di guerra nell'era degli ipod touch e della musica scaricata direttamente da youtube, ancora perfetto per ascoltare Jeff Buckley, senza quella pila di scartoffie, lettere, commenti, nuove idee e nuove critiche che Mary lascia ogni mattina sull'angolo destro della mia scrivania -anche stamattina erano esattamente lì, tutto era esattamente lì-. Senza essere passata prima a prendere il mio caffè sulla 55esima , senza essere passata davanti all'edicola di Joe e senza il saluto della Signora Witmann che lavora nel negozio accanto.
Non so ancora se riuscirò a raccontare qualcosa, scrivere di qualcuno, dire a persone che saranno spaventosamente sconosciute che ne sarà del mondo, che ne sarà delle guerre, degli accordi di pace e di cooperazione, di chi soffre la fame e di chi tenta di estinguerla, delle paure e delle piccole gioie della gente comune, delle nostre giornate. Non so come potrò farlo lontana da quello che negli ultimi due anni è stato il mio regno, il mio piccolo gelosissimo e ancor più caotico mondo, qui, in un piccolo angolo di America. Ma l'importante in fondo non sarà come e per chi scriverò io. Ciò che davvero mi interessa sarà che cosa leggerete voi: di qualunque cosa vi parleranno, vi scriveranno, esigete fermamente che vi raccontino il vero, che vi descrivano le cose come stanno, senza pretendere di dirvi ed insegnarvi perchè accadano e quale sia il loro significato. Non lasciate che quasi senza che ve ne possiate accorgere vi privino del diritto e della capacità di giudicare in prima persona e di chiedere trasparenza ed onestà -almeno ai giornali, almeno a chi vi racconta-. Pretendete che vi vengano tutte le vicende importanti, con tutte le loro sfaccettature e con tutti gli scenari che aprono, ma pretendete anche di essere sempre voi a valutare quanto siano davvero importanti e quale sfumatura vi sembra intonarsi meglio con gli altri colori. Soprattutto continuate a leggere, continuate ad andare in edicola da Joe ogni mattina, ad andare in libreria una volta ogni paio di settimane. Continuate a comunicare. E continuate a raccontare.

lunedì 14 giugno 2010

Le mie notti sono migliori dei vostri giorni


Cadi senza accorgerti che il vuoto ti inghiotte.

Il vento freddo ti brucia la faccia.

La vita scappa via feroce, l'asfalto ti accoglie silenzioso.

Solo un leggero tonfo, come lo sparo con un silenziatore.

Ma la terra è più rossa di una morte per colpo di pistola.

L'angoscia negli occhi della gente, la serenità dei tuoi ancora aperti è agghiacciante.

lunedì 31 maggio 2010

Il cacciatore e il cerbiatto

Tu cacciatore avventato, hai preso la mira, mite nel bosco, ostentando la tua falsa inoffensività.

Agitando le nude mani, hai nascosto le armi occhieggiando al cerbiatto,

ti guardava egli docile cedendo alla sua naturale innocenza.

Allora hai sparato più volte, finchè con un tonfo è caduto.

Grande lo stupore nei suoi occhi sgranati nel sentire il calore causato dalle ferite

non capisce il perchè,

e mentre lo abbracci e lo stringi piangendo pentito

egli non sente, finalmente.

non sente più niente.

venerdì 14 maggio 2010

Fiori appassiti

Era una sera fredda e piovosa, tanto più fredda e piovosa perchè i primi giorni di maggio si vorrebbero lasciare i giubbotti invernali nell'armadio, proprio nell'angolo più lontano e buio. Ma anche il tempo a volte è come se cercasse di adeguarsi alle circostanze, è come se volesse incorniciare nel modo più adeguato le vite degli uomini, e adeguarsi alle diverse sfumature dei pensieri che li accompagnano,proprio come accade nei grandi romanzi. E il ritmo quasi marziale di questa pioggia battente era proprio lo stesso che guidava il respiro di chi quella sera camminava per le tristi vie del centro, si trascinava indifferente a ciò che si muoveva intorno, persino al proprio monotono procedere.
Ad un tratto lo scenario esterno cambiò. Luci, risate, un acceso chiacchierio, profumo di mojito mischiato a quello di bellini e di rhum cooler nella stessa sala. La pioggia era rimasta fuori dal locale, ma con essa non la sobria malinconia dei passi solitari di Massimo, passi ancora più soli e pesanti in mezzo a quelli di chi rideva rumorosamente passando da un tavolino all'altro.
Nella sala più piccola del Flower gli altri avevano già preso posto.
Erano ormai quasi due mesi che si ritrovavano davanti ad una birra per raccontarsi le loro storie, per trovare nella solitudine degli altri un frammento della loro stessa tristezza. Giovani uomini e giovani donne che copiando in qualche modo le riunioni degli alcolisti anonimi, o almeno le scene dei film, speravano non del tutto consapevolmente di non staccarsi dal loro passato, da ciò che li faceva ancora soffrire, da quell'unica via dolorosa che pensavano li tenesse legati a loro stessi e alla loro vita.
Fabrizio era stato il primo: il tatuaggio che tnon nascondeva sul braccio con il nome di Elisabetta in caratteri gotici era il segno tangibile della sua ostinata voglia di non guardare avanti. A Leo il mese precedente erano servite tre birre prima di riuscire ad evitare che la voce tremasse mentre raccontava di quando era uscito di strada nel gelo di una insolente mattina di Dicembre, finendo faccia a faccia con la morte riflessa nel manto di neve del burrone. Voleva, doveva portare una lettera a Giorgia. Voleva, doveva convincerla a tornare indietro. Voleva, doveva sconfiggere la bufera, perchè non voleva, non doveva aspettare un solo attimo in più. Lucia non aveva in realtà raccontato la sua storia, ma ogni sera, ad ogni incontro tutti leggevano la sua sofferenza nelle frasi pronunciate senza nennemo più molta convinzione, senza mai un tono diverso nella voce, senza mai che distogliesse lo sguardo dal vuoto. All'inzio nessuno capì perchè Elisa partecipasse alle riunioni. Era una ragazza frizzante e piena di vita, che frequentava molti ragazzi e che se non si impegnava in una relazione stabile era solo perchè aveva ventidue anni e a ventidue anni si può scegliere di godersi la vita e rimandare gli impegni con l'amore a più in là. Ma quelle riunioni erano l'unico sentiero che conduceva al giardino che lei con apparentementemente così poca fatica teneva nascosto a tutti. In quelle rare occasioni non nascondeva il vuoto lasciato da un amore non ricambiato, dall'indifferenza di un sorriso non apprezzato e di un'occasione mai concessa. Giulio diceva di non essre più innamorato di Cristina, di non esserlo forse mai stato, ma di non riuscire a staccarsi da lei da quando si erano lasciati. Gli era impossibile non sentirla, non vederla, non uscire la sera con lei, pensare seriamente di frequentare un'altra. Forse non sapeva nennemo quanto tutto questo fosse sbagliato.
Quella sera sarebbe stato il turno di Andrea. Non sapeva ancora comeavrebbe raccontato che cosa gli aveva detto Anna qualche mese prima, che cosa l'aveva spinta a chiudere una relazione di tre anni. Come avrebbe svelato che l'avrebbe voluta sposare, che aveva già immaginato la sua vita con lei, che non avrebbe mai più amato un'altra.
Massimo non parlava quasi mai. Ascoltava. Ascoltava attentamente. Cercava di non lasciar trapelare nulla del suo dolore che mascherava con una sprezzante ostilità verso tutte quelle storie, verso tutte quelle lacrime trattenute e rigettate indietro. Diceva che non valeva la pena soffrire così, lasciarsi coivolgere in quel modo.
Aprì la carta del menù. Inutilmente perchè sapeva già cosa avrebbe preso.
Ma c'era qualcosa di strano. Un biglietto. "Quando un fiore è sbocciato, è sbocciato. Ma quando è appassito, è appassito. é inutile conservarlo e farlo seccare nella propria casa, simulacro senza vita di un antico splendore. Non emana più il profumo delicato e spumeggiante di un tempo. Non cattura più i raggi del Sole e il bagliore dei suoi raggi. Ormai è appassito."
Lo lesse e lo lasciò al centro del tavolo.
Elena ogni sera portando le birre ai clienti sentiva i discorsi di quello strano tavolino, ne percepiva l'amara rassegnazione che strideva così forte con il disincantato ottimismo che caratterizza la giovane età, ma aveva visto che in quegli occhi verdi, spenti, ci doveva essere ancora un barlume di felicità.

mercoledì 5 maggio 2010

Mi avvicino e il respiro è sospeso

Mi avvicino e il respiro è sospeso,

all'improvviso una sensazione, decisa, positiva. La mente è confusa, e dentro di me un caleidoscopio di emozioni colorate.

Gli occhi serrati. La mia concentrazione è su altri stimoli che lo sguardo farebbe disperdere a discapito di più forti sensazioni.

Un delicato fremito, poi una stretta allo stomaco e un brivido lungo la schiena, un torrente in piena di adrenalina avanza, galoppando fino alle più remote estremità del mio corpo. Trasalisco.

Come interminabili esplosioni, nel mio petto riecheggiano le palpitazioni. I sussulti del mio cuore si fanno sempre più intensi. Posso sentire il suo battito e il corpo è pervaso da un intenso calore. Nuovamente un sussulto.

Il soave profumo mi pervade e un leggero solletico al viso mi ruba un sorriso. Un delicato fremito. Il mondo attorno non dà segni; l’esistenza è tutta là, pura e immacolata è catturata in quegli istanti ed io, assorto in un mondo onirico fatto di sentimenti di sogni ma anche di verità, mi cullo in queste braccia eteree, consapevole della realtà che rappresentano. Tutta quell’essenza in un gesto.

L’emozione, nel suo delicato velo di seta, mi avvolge.

Le tue labbra si staccano dalle mie: “è ora di andare” “no ti prego, un altro bacio”

giovedì 29 aprile 2010

Sonno

Momenti di sonno artificiale, che sa di sedazione, in cui sei protetto e nulla può violarti

si alternano a momenti di dolorosa coscienza nei quali percepisci i lividi, pur non riuscendo a ricordarne esattamente la causa che li ha provocati.

Corpi dalla breve memoria, conserviamo nei riflessi automatici le conseguenze delle azioni subite o compiute.

Traditrici fitte svelano il tuo sommario tranello, quando un frammento di ricordo che non riconosci come tuo sposta l'immaginario telo.

Ancora una volta allunghi una tremante mano e spegni la luce.

In fondo è solamente un'altra, lunga notte.

lunedì 26 aprile 2010

Fly One Time - Incontro


I luoghi di intenso passaggio mi hanno sempre incuriosito ed attratto.
Incroci, piazze, stazioni, aeroporti... Spazi in cui la gente si riversa e si incrocia: luoghi-simbolo dell'enorme numero e varietà di potenziali incontri che ognuno di noi può fare nel corso della sua vita.

Oggi mi trovo in quello che ogni addetto ai lavori riconosce come l'aeroporto più trafficato del mondo. Le piste dell'Hartsfield-Jackson Atlanta International Airport sono bollenti talmente alto è il flusso di aerei che passano da questo cruciale scalo delle aerovie statunitensi e mondiali.


Mi trovo nel Concourse C, il terzo dei sei terminal di cui è provvisto questo aeroporto e sto aspettando la mia coincidenza per Seattle. Condivido la posizione di "passeggero in transito" con tutte le altre persone in attesa in questo lunghissimo corridoio e, avendo un po' di tempo a disposizione, con calma osservo i miei vicini.

Alla mia destra siede un anziano signore che sembra essersi appena appisolato. Pantaloni beige tenuti alti alti da un bel paio di bretelle, camicia a righe rosse e blu, grandi occhiali da vista ed un rigoroso cappellino da baseball con la visiera perfettamente orizzontale sono la sua tenuta. Al suo fianco, vigile e fedele, una canuta signora dalla carnagione chiarissima con dei grandi occhi blu che scrutano i monitor alla ricerca di qualche notizia sul loro aereo.

Squilla un telefono. E' il mio. Rispondo brevemente per confermare che sarò a Seattle entro sera, pronto domattina a volare fino a Los Angeles.
Rimettendomi il telefono in tasca mi rendo conto di aver svegliato il signore, che ora mi guarda placido.
Dispiaciuto per aver interrotto il suo riposo in una giornata faticosa, mi scuso con lui e gli chiedo di raccontarmi del suo viaggio.

Scopro così che questo splendido signore di 92 anni si chiama Derald ed insieme a sua moglie Connie sta tornando in Nebraska dopo aver partecipato al matrimonio di una nipote ad Orlando, Florida.
Derald e Connie vivono a Geneva, una cittadina di circa duemila abitanti nel Nebraska sudorientale.
Sono affascinato dalla parlata lenta di questo pacifico signore, che inizia a poco a poco, con un lieve affanno nella voce, a raccontarmi la sua vita.
Ogni tanto qualche parola mi sfugge, nascondendosi negli anfratti del fumoso dialetto del Nebraska, ma non importa, perchè quest'uomo mi dà subito l'impressione di essere felice di condividere con me questo momento. E tanto basta.

Derald dice di essere figlio unico, "per questo sono così viziato" soggiunge con un grande sorriso. "In realtà", mi confida, "avrei avuto una sorellina, ma purtroppo è mancata alla nascita".
E' nato a Shickley, Nebraska, a soli 15 km da Geneva.
Suo padre aveva una fattoria e gli affari andavano abbastanza bene, così lui fu il primo ragazzo del paese ad avere una macchina. Il padre gli dava i soldi per 5 galloni di benzina alla settimana: abbastanza per andare e tornare da scuola e, risparmiando sui km, portare la sua ragazza in giro il sabato sera, mi dice ridendo.

Gli chiedo quali fossero i suoi sogni da giovane: "Avere una fattoria. E sposarmi. Li ho realizzati tutti e due". Si è sposato con Connie nel 1938, "abbiamo da poco festeggiato 72 anni di matrimonio", dice guardandomi con occhi luminosi e cingendo teneramente con un braccio la sua sorridente signora.
Mi racconta di una vita fatta di duro lavoro nei campi, senza considerare se fosse sabato o domenica, "perchè la terra a queste cose non bada" e descrive con dovizia di particolari la loro casa ed il giardino di cui va molto orgoglioso: lo cura ogni giorno e riesce ancora a tosare l'erba.

Guarda Connie e mi dice: "Abbiamo sempre lavorato insieme, io e lei, ed abbiamo costruito tanto. Siamo sempre stati vicini, amici, senza segreti.
Io sono una persona normale, sto bene con gli altri e mi diverto in compagnia.
Non ho mai bevuto, non ho mai fumato, non ho mai giocato d'azzardo.
Penso di aver vissuto una vita abbastanza austera.
Ma sono felice"

Derald mi guarda, chiude gli occhi per un attimo e fa un respiro profondo.
Ed io con lui.

giovedì 22 aprile 2010

Déjà vu / Jamais vu

Sei stanco. Stanco nel senso di stufo, ne hai abbastanza. Da quando hai memoria, sei alla ricerca di qualcosa per riempire il vuoto che senti dentro. Hai provato in tutti i modi a colmarlo e hai sempre fallito. Getti la spugna. Inizi a lasciare andare ogni cosa, smetti di combattere. Posi la spada, ti spogli dell'armatura, liberi il fedele destriero, compagno di mille battaglie contro i mulini a vento. E' la tua resa. Non vuoi più sforzarti in nulla. Ti siedi in panchina e guardi. Inizi ad osservare le vicende esterne, nel mondo, e interne, nel tuo corpo, senza immischiarti in esse. Osservi, non cerchi di contrastarle, diventi il guardone delle trame del fato. Inspirazioni, espirazioni, battiti del cuore, contrazioni muscolari involontarie, spasmi addominali, tremori. Pensieri, ricordi, scivolano via così. Magicamente, piano piano, senza neanche accorgertene, ti ritrovi con una mente bucata come un colabrodo. Incapace di riempirsi di qualcosa, capace di lasciar passare via tutto. La testa come un buco. Un giorno ti svegli, ti alzi, e tutto ciò che vedi ti pare di vederlo per la prima volta. Jamais vu. Non sai come sei arrivato in questa situazione, ..... non lo ricordi. Prendi in mano un libro che hai già letto molte volte, o almeno così ti sembra, e senti che tutto il suo contenuto scivola via quando tenti di richiamarlo. Déjà vu. Non hai ancora dimenticato come si legge, ma poco ci manca. Guardi un film, ascolti una canzone. Roba vecchia, qualcosa nella testa ti dice che forse una volta hai già avuto a che fare con tutto ciò. Ogni sforzo è vano, sopratutto perchè hai perso l'attitudine a sforzarti. Potresti ascoltare mille volte di seguito la stessa storia, e ogni volta sarebbe emozionante come la prima. Ascolti una canzone e ad essa non è associato nessun ricordo o pensiero. Ascolti la canzone e c'è solo la canzone, libera da ogni interpretazione o significato. Che magia quel sovrapporsi e susseguirsi di suoni! Quella sensazione che chiamavi noia non esiste più.... o forse non è mai esistita, mah.... in realtà non ricordi. Per te è tutto nuovo, sempre. Guardi quello che ti si presenta fuori dalla finestra e, ogni volta, è indescrivibile. Per raccontare quello che vedi non ci sono parole .... almeno nella tua testa. Il dizionario sì è ridotto all'osso, hai lasciato andare via le parole e i significati. In questa nuova ottica vedi chiaramente che nessun vocabolo è in grado di descrivere un oggetto meglio dell'oggetto stesso. Probabilmente penseresti: "descrivere a parole, che vano sforzo!"; se solo non ti fossi dimenticato che cosa significa sforzo. Poi passi davanti allo specchio e vedi la tua immagine riflessa. Ti rendi conto del tuo aspetto esteriore, ed è uno shock. Che prodigio lo.... specchio?!? Nel riflesso ti tocchi una guancia, fai qualche smorfia, un paio di boccacce, infine un sorriso a trentadue denti. Sei ridiventato pericolosamente innocente.
Se fossi un concorrente di un telequiz, saresti il primo a tornare a casa. Saresti contemporaneamente la delusione di chi ti vorrebbe vincente e la gioia di chi invece vorrebbe vincere. Non è fantastico!? Con aria perplessa aggrotti la fronte e con un dito ti gratti la tempia...., l'ultimo tentativo di quella cosa..., lo sforzo.... Mah.... vincere, perdere...., hai l'impressione che queste parole non ti dicano niente. Non più.

martedì 20 aprile 2010

Sole II

Al mattino presto, sul prato si appoggia una fitta nebbia. Una coltre bianca spessa un metro che non si sa da dove venga né dove vada poche ore dopo.
Disteso e immobile il prato, distesa e immobile la nebbia, disteso e immobile io nello strato che li divide e che forse neanche esiste.
Gli occhi chiusi, il respiro lento.
Sento l’aria entrare fresca nei polmoni e uscire calda un istante dopo dalle narici.
Sento il cuore che impone il suo ritmo regolare e zoppicante. Avverto il sangue che non si stanca di scorrere nelle arterie e nelle vene. Lo posso sentire. Nelle tempie, nel collo, nei polsi. Anche l’addome si muove al ritmo della circolazione, mescolando questa danza con quella provocata dal respiro.
Sono vivo.
Eppure non vivo.
Se aprissi gli occhi vedrei solo la nebbia, ma so che non c’è soltanto lei.
Non so da quanto tempo mi trovi qui, mesi, anni, forse da sempre. Quello che so è che avevo scelto questo prato e questa nebbia per un motivo preciso: era l’unico posto in cui potessi nascondermi dal sole.
Al mattino presto, sul prato si appoggia una fitta nebbia. E’ l’unico ostacolo che i raggi del sole non riescono a superare, è l’unico posto in cui posso aprire gli occhi senza restare accecato.
Pazienza e costanza. E’ così che il sole ha continuato a scaldarmi. Quando si alza una brezza leggera a spazzare la nebbia, il sole mi trova e mi ricorda la sua presenza. E anche quando la nebbia resiste per un mese intero, il suo calore riesce a penetrarla e a raggiungermi senza che me ne accorga. Il sole è sempre stato lì, paziente e costante.
Sono vivo.
Eppure non vivo.
Pensavo che senza sole potessi vivere meglio. Ma adesso ho cambiato idea.
Quando, in passato, avevo provato ad aprire gli occhi verso il sole, le ferite e le bruciature s’erano fatte sentire a lungo e avevo capito che era meglio evitare di scottarsi. Adesso, invece, ho deciso che senza bruciarmi non posso vivere. Senza sole, resterei sempre disteso qui, su questo prato, sotto questa nebbia.
Al mattino presto, sul prato si appoggia una fitta nebbia. E tutti dicono che è grazie a questa nebbia che vivo. Io, invece, penso che è per colpa sua che non vivo.
Dopo aver messo in buone mani la mia decisione di abbandonarmi al sole, aspetto che la brezza leggera mi esponga ai suoi raggi.
Ecco, ora lo sento spingere sulla mia faccia e sul mio corpo, mi chiede di guardarlo.
Apro gli occhi, apro le mani, apro il cuore. Lo fisso con determinazione e mi preparo al fuoco.

lunedì 19 aprile 2010

Fly One Time - Battito d'ali


A terra.
Non si è volato ieri, non si vola oggi, forse non si volerà domani.
Grigia, impalpabile e minacciosa, la nube grigia di cenere vulcanica aleggia sopra le nostre teste, perfettamente collocata tra i 6'000 ed i 10'000 metri, sulle autostrade del cielo.


L'aeroporto di Edimburgo è completamente paralizzato.
I suoi provvisori abitanti si trovano all'interno di un irreale limbo, in attesa che qualche ancestrale divinità vichinga decida di placare la furia del vulcano.


Decido di fare un giro sulla pista per controllare che i reattori del mio aereo siano stati correttamente coperti e sigillati. Auspicabilmente nel pomeriggio di domani potremo partire per Copenhagen.


Tornando verso il terminal vengo incuriosito da un tranquillo operatore aeroportuale assorto nella lettura di Metro Edinburgh.
Attraverso la deserta pista di rullaggio e lo raggiungo mentre, con il suo duro accento scozzese, farfuglia tra sè e sè parole incomprensibili: “Efiathal... Eiaflatakut...”
Si ferma, sospira, si passa la mano tozza sulla lattiginosa fronte già scottata dal sole e mi guarda cercando un aiuto.
“Come diavolo si pronuncia?” mi chiede, indicando un punto del foglio.

Eyjafjallajökull, l'impronunciabile vulcano islandese grazie al quale ci troviamo a chiacchierare nel punto in cui normalmente scorrono le enormi ruote dei jet di linea.
Gli sorrido, gli do una pacca sulla spalla e guardo il cielo dietro di lui, verso Nord.

Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo.
Così mi trovo ad osservare che, alla fine, l'imprevedibilità può essere affascinante.

Non la penserà allo stesso modo il Presidente, ma tant'è.

lunedì 12 aprile 2010

Fly One Time - Colori


“Un pot-pourri da trentadue milioni di passeggeri l'anno...”
L'intensa luce del tramonto dà colore al vetro ed all'acciaio e mi illumina gli occhi.
Sospinto dai miei pensieri cammino lentamente per il lunghissimo corridoio principale del Terminal 2 del Munich Franz Joseph Strauss Airport.



Passeggio ed incrocio lo sguardo di uomini e donne provenienti da ogni parte del mondo: un'anziana ed energica signora americana in cerca del gate della Delta per Atlanta, un frettoloso uomo d'affari in partenza per la Cina, una giovane coppia tedesca decisa a gustarsi lentamente ogni attimo del suo atteso viaggio, una colorata famiglia italiana che non nasconde il suo disappunto per il ritardo del volo Alitalia per Roma...


Ogni grande aeroporto del mondo può essere visto come luogo di incontro e fusione etnica e culturale: un frenetico, brulicante miscuglio di Europei, Asiatici, Sikh, Marocchini, Colombiani, donne arabe dal volto velato.
Naturalmente è un'illusione, un'integrazione fasulla che dura esattamente fino a quando l'ultima chiamata alle uscite costringe di nuovo quella massa a dividersi per colore e religione. Ma mentre le sale d'imbarco si riempiono e le file dei check in ondeggiano, l'immagine è quella di un nirvana multiculturale che farebbe piangere di gioia qualsiasi intellettuale di sinistra.


L'architettura degli aeroporti: noiosa e monotona per alcuni, esaltante per altri. Quando atterro in Germania, a Monaco, Berlino o Francoforte, resto sempre piacevolmente stupito dalla pulizia, dalla cura dei particolari e dall'accoglienza delle strutture aeroportuali. Asettiche?
Direi piuttosto perfettamente funzionali ed eleganti.

“Efficienza, design e comodità” penso, ricordando che l'aeroporto di Monaco è stato recentemente nominato miglior aeroporto europeo e terzo miglior aeroporto del mondo.
Linee e colori inattesi ti avvolgono e ti conducono splendidamente nell'esperienza del viaggio: il futuro è qui!



Dopo circa un chilometro di piacevole passeggiata lungo il Terminal 2 giungo alla Lounge piloti PP International Airlines: la compagnia ha scelto una splendida posizione per la sua sala privata, arredata con gusto e moderna eleganza, in linea con gli standard locali.
Facendo scorrere l'ampia vetrata di fronte a me, accedo ad un terrazzo con vista sulle piste e sull'intero aeroporto.
Rumoroso, sì, ma di gran fascino!



Il volo PP 3487 per London City Airport partirà tra circa tre ore: ho una mezz'oretta di tranquillità a disposizione.
Chiamo casa e gioco un po' con la vocina curiosa che risponde all'altro capo del telefono: diventa sempre più bravo, riesce ad indovinare il tipo di aereo dal rumore che fa quando decolla...
Orgoglioso, saluto lui e la sua tenera mamma e do loro appuntamento a domattina.


In piedi sul terrazzo in cima al Terminal 2 dell'aeroporto di Monaco osservo silenziosamente il flusso degli aerei che, ordinati, si preparano a solcare i cieli della Baviera rombando verso le loro remote destinazioni sparse per il mondo. E sono ancora una volta affascinato dalla poesia del volo.
Perchè, come vi dirà qualunque appassionato di volo, “è la partenza che conta”.



giovedì 8 aprile 2010

Anima

Adesso l'anima è troppo morbida, malleabile. Qualsiasi ferita essa riceva o da qualunque cosa essa venga colpita, torna inesorabilmente alla forma iniziale.

Non conserva memoria alcuna dei torti ricevuti, nè diventa più guardinga, o diffidente. Nemmeno la prudenza riesce ad imparare.

Prendila, esponila al freddo, affinchè essa diventi gelata.

E quando il freddo l'avrà tramutata in duro ghiaccio colpiscila.

Allora finalmente potrà essere distrutta.

martedì 6 aprile 2010

Hide & Sick



1, 2, 3....
con fanciullesco entusiasmo m'incammino
furtivo e pronto allo scatto.
Dietro ogni angolo un pensiero da acciuffare,
sotto ogni scala un trucchetto da smascherare,
aldilà di ogni tenda una voce misteriosa da svelare.
Nessun inseguimento, nessuna preoccupazione,
prima che qualcosa dica 'tana'
sarò già lì per l'abbraccio mortale.
Un sorriso, amorevole vivisezione del mio cuore, eutanasia mentale.
Ora che ci penso non è proprio nascondino.....
è più .....voglia di qualcosa di buono.
Con la sete di un sangue che non può scorrere
sorrido alla luna e, con la lingua, mi accarezzo i canini.

venerdì 2 aprile 2010

Giano - Sconfitta

Accetta                                                        Nega
ciò che non puoi cambiare                          l'evidenza
mantieni la calma                    strappati vesti e capelli
sorridi                                                             urla
stringi la mano                                   giura vendetta
al tuo avversario                                  al tuo nemico
non dimenticarlo                               non dimenticarlo
cambia il mondo                                       rassegnati

mercoledì 31 marzo 2010

Le ore

''S'innamorano solo i ventenni e le cameriere. Non innamorarti.'' (Anonimo)




Tic Tac Tic Tac Tic Tac

A

Pace,
Ago che cuce le due rive del fiume.
Calma,
Azione che prolunga l’attimo.

B

Occhio nocciola
Respiro dei secondi.

Farfalla d'illusione
Anima dei minuti.

Casa del futuro
Luce delle ore.

IO