Rimasi per la maggior parte del volo fissando il piccolo monitor sopra al sedile davanti. Guardavo incuriosito il percorso virtuale dell’aereo, la velocità, l’altezza, controllavo l’orologio e facevo confusi calcoli sull’orario previsto d’arrivo. Monitoravo i rumori del motore, sorvegliavo i volti delle hostess e passavo nervosamente la mano tra i capelli.
Ogni volta che prendo un aereo viaggia con me un passeggero in più. Si siede dove mi siedo io e rimaniamo per tutto il tragitto affossati in un unico sedile. Stiamo scomodi, spesso non riesco neanche a togliermi la giacca, entrambi non ci addormentiamo mai e muoversi in uno spazio così angusto ci risulta complicato al punto che non sono mai riusciti a vedere come sono fatti i bagni di un aereo.
L’ansia, così chiamo il mio intimo compagno di viaggio, pesava il doppio dopo essere partiti da Lisbona.
Salire su un aereo diretto in Africa accentuava le mie suggestioni negative. Come se gli aerei, varcato il confine europeo, peraltro immaginario, diventassero meno affidabili, le condizioni atmosferiche più critiche e il personale aereo meno professionale.
Avevo previsto queste sensazioni, così come tanti altri timori che avrei incontrato nei giorni seguenti.
Il miglior modo per vincere le paure è affrontarle. E’ una frase da film, ma io l’avevo sentita pronunciare in una serata tra amici, mangiando una pizza dopo un allenamento.
Quando staccai le cinture di sicurezza sorrisi intimamente e pensai a quel giorno.
Dakar, 23-07-2009, ore 01.30 circa
Il primo respiro scendendo la scaletta dell’aereo mi ricordò la sensazione che si prova aprendo una lavastoviglie che ha appena terminato il lavaggio. Un calore umido e denso. Affrettai il passo ed entrai in una hall seguendo coloro che mi precedevano senza badare troppo a dove andassi.
A mesi di distanza sorrido per la premura con la quale ci cospargemmo di “autan plus” già all’interno dell’aereoporto di Dakar. Nonostante le sale dove si ritiravano i bagagli fossero dotate di aria condizionata e fossero fresche come i corridoi degli yogurt al supermercato, inaugurammo i flaconi blu anti zanzare senza la minima esitazione.
Compilammo un modello alla dogana, mostrammo più volte il passaporto e infine ci dirigemmo verso l’uscita principale. Euforia e un misto fra stanchezza, diffidenza e preoccupazione furono gli stati d’animo che mi accompagnarono nei minuti successivi.
Dimenticherò difficilmente l’ora successiva all’atterraggio.
Un lasso di tempo, probabilmente più lungo di sessanta minuti, che va dall’incontro con il gruppo Renken fuori dall’aeroporto, al banchetto improvvisato nella casa a Malika.
Lara e Claudia erano le uniche persone che nel buio di Dakar si potevano riconoscere.
Con le mie due valigie mi muovevo con circospezione e lentamente, seguendo le voci familiari ma non riuscendo a distinguere la maggior parte degli oggetti che avevo intorno. Non mi aspettavo quell’oscurità, non l’avevo calcolata tra i miei tanti pensieri delle ore precedenti.
Solo nei pressi del nostro pulmino, un riflettore della pista d’atterraggio diffondeva una luce più intensa e cercai di mettere a fuoco le persone intorno a me e il nostro mezzo di trasporto.
Il piccolo bus era bianco, vecchio e ammaccato in più parti. Vetri quasi tutti frantumati e motore rumoroso.
La mia attenzione fu catturata da un ragazzo che da sopra il tettuccio ci esortava a passargli le valigie più pesanti.
Le prendeva, le solleva senza troppa fatica e le organizzava una vicino all’altra, ognuna di esse era fissata da una corda che univa i due lati estremi del tettuccio. Rimasi qualche secondo fermo aspettando di vedere cosa avrebbero fatto gli altri, dopodiché passai anche la mia borsa. Ero ovviamente perplesso circa l’arrivo a destinazione delle nostre valigie.
Salimmo tutti dalla parte posteriore del pulmino, sedendoci dove capitava. All’interno, quel buio che non conoscevo divenne nuovamente protagonista, in poco tempo mi trascinò in una dimensione che fatico a descrivere.
In realtà non so nemmeno definire bene cosa mi successe. Si è trattato di un’esperienza molto personale che in maniera diversa credo sia toccata a tutti i miei compagni di viaggio.
Il pulmino divenne il posto più silenzioso del mondo. Le persone all’interno, i loro volti, i loro dialoghi, ogni cosa che non mi riguardasse direttamente rimase in secondo piano, lontano.
Gli stimoli di senso dall’esterno erano talmente numerosi che il mio cervello deve aver separato la mente dal corpo, facendo in modo che nessun odore, nessuna immagine, nessun particolare che coglievo lungo la strada andasse perduto.
La testa, accesa e lucida, prendeva nota del buio incredibile, dei dialoghi accesi tra il guidatore e la polizia che ci fermava nei posti di blocco, della strada deserta piena di dossi, della periferia di Dakar, muta e incompleta come una città bombardata.
Il corpo, sedato e stanco, non l’avvertivo. Non ricordo a fianco di chi fossi seduto, né dove. Non scambiai una parola con nessuno per tutto il viaggio e con pantaloni lunghi, scarpe pesanti e zaino addosso non versai una goccia di sudore.
La strada che percorrevamo era dissestata, fossi, dune, brusche frenate. La velocità moderata permetteva di osservare fuori dal finestrino con attenzione. Avevo il tempo di riconoscere ogni oggetto, una casa, una bici, un pneumatico abbandonato, guardarlo per pochi istanti costruendo attorno la sua probabile storia.
Il bombardamento di odori e immagini mi aveva completamente inebetito.
Quando scesi dal pulmino, circa un’ora più tardi, ero ancora intorpidito e mi ritrovai a girare su me stesso senza capire cosa dovessi fare.
Non mi aspettavo una sabbia cosi soffice da impedirmi di fare i movimenti più elementari, le scarpe da ginnastica vi affondavano come nelle sabbie mobili.
Nessuna luce artificiale, solo la luna, le stelle e deboli riflessi luminosi di alcuni oggetti. Non vedevo nulla, non riconoscevo nessuno e per trovare la mia valigia impiegai qualche minuto.
Questa fase pseudo onirica fu definitivamente spezzata da un’immagine che ricordo particolarmente bene. Guardando verso il mare vidi Fabrizio correre a fatica sulla sabbia con due valigioni in mano. Mi vennero in mente le parole di Claudia a proposito della sistemazione nelle camere, immaginai che Fabrizio fosse stato più sveglio di me e segui il suo percorso che ci porto all’ingresso di casa Renken.
Qualche istante dopo ero in cucina ad assaggiare mango e papaya, la luce della stanza era abbagliante.
Malika, 23-07-2009
Avevo immaginato che tante cose mi avrebbero lasciato un segno ma non avrei mai creduto che sarebbe bastata l’esperienza di una notte africana, appena pochi istanti dopo essere atterrato, a suggestionarmi come un bambino la notte di Natale.
La notte, quella vera, quella dove per capire le distanze tra le persone bisogna aspettare che qualcuno parli in modo che tu possa calcolare da dove proviene il suono della loro voce. Quella che quando guardi in alto ti sembra di non aver mai visto prima un cielo stellato.
Dopo lo spuntino in cucina, abbiamo passato qualche minuto sul terrazzo. Parlavamo sottovoce, guardando un po’ il mare un po’ il cielo. L’oscurità ha creato intimità nel gruppo e abbiamo dimenticato in fretta la stanchezza del viaggio.
What if I say you're not like the others?
Point Particle è un blog nato per ospitare le idee e i pensieri di chiunque voglia scriverci. Nella sua pur breve vita, ha accolto e fatto leggere pezzi molto diversi, scritti da persone molto diverse. Pezzi che forse raccontano la storia di chi li ha scritti, o magari l'accarezzano soltanto. Frutti di un'ispirazione che a volte riesce a disporre le lettere una di fianco all'altra proprio in quel modo che ti fa provare qualcosa di speciale. Un'ispirazione che si è manifestata in persone normali, come te e come me. Persone che hanno deciso di condividere qualcosa con chiunque passasse di qui, anziché perdere i propri pensieri nei meandri della mente.
Perché chi deposita qualcosa in questa piccola banca non ha niente da perdere, ma chi apre questa pagina e legge qualche pezzo ha molto da guadagnare.
E allora... Buona lettura!
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
"Il miglior modo per vincere le paure è affrontarle."
RispondiElimina...giusto ieri pensavo a quali sensazioni potrò provare al mio arrivo in Africa!!
Bravo Ale!
Tante volte ho sentito raccontare da te la tua avventura. Ma ora che ho letto questo pezzo mi sembra di essere sempre stato sempre li con te!
RispondiElimina