What if I say you're not like the others?


Point Particle è un blog nato per ospitare le idee e i pensieri di chiunque voglia scriverci. Nella sua pur breve vita, ha accolto e fatto leggere pezzi molto diversi, scritti da persone molto diverse. Pezzi che forse raccontano la storia di chi li ha scritti, o magari l'accarezzano soltanto. Frutti di un'ispirazione che a volte riesce a disporre le lettere una di fianco all'altra proprio in quel modo che ti fa provare qualcosa di speciale. Un'ispirazione che si è manifestata in persone normali, come te e come me. Persone che hanno deciso di condividere qualcosa con chiunque passasse di qui, anziché perdere i propri pensieri nei meandri della mente.
Perché chi deposita qualcosa in questa piccola banca non ha niente da perdere, ma chi apre questa pagina e legge qualche pezzo ha molto da guadagnare.
E allora... Buona lettura!

martedì 26 gennaio 2010

Senegal 2009 - "Camminare era piacevole. L’acqua era limpida, non troppo fredda ed una leggera brezza aiutava a sopportare il caldo"


23/7 Malika. Mattina presto.

Condividevo la stanza con Fabrizio, Fabrizio M se non volete confonderlo.

Erano circa le 4 del mattino quando avreste potuto trovarci in piedi, mani sui fianchi, guardare verso il letto con espressione inquisitoria. La zanzariera, avvolta su sé stessa, pendeva dal soffitto fermandosi circa un metro e mezzo sopra la superficie del materasso.

L’operazione aveva il sapore di un cerimoniale. Ci industriammo scrupolosamente per qualche minuto finché riuscimmo a darle un assetto. Ne derivò un letto a baldacchino, instabile e inospitale.

Non era facile abituarsi a stare sdraiati sotto quel velo. Continuammo così a chiacchierare a bassa voce per alcuni minuti.

Mentre svanivano gradualmente i rumori della casa, iniziammo a distinguere i suoni che provenivano dall’esterno. La finestra della stanza dava verso il mare e potevamo avvertire, non troppo lontano, il ciclico infrangersi delle onde. Era discreto e rassicurante, non capita spesso di potersi addormentare con quel ritornello.

Dormimmo solo poche ore nonostante la stanchezza del viaggio richiedesse più attenzione. Il caldo e la luce impedirono di prolungare troppo il nostro sonno.

Ci svegliammo più o meno insieme, rimanere distesi sotto quel velo era diventato insostenibile per entrambi.

Mi girai per alzare la zanzariera dalla mia parte e sfiorai il lenzuolo con la mano. Era umido, quasi bagnato.

.

Dopo una breve colazione ci avviammo verso la spiaggia. Passeggiammo per qualche centinaia di metri lungo il mare. Camminare era piacevole. L’acqua era limpida, non troppo fredda ed una leggera brezza aiutava a sopportare il caldo. Dove la spiaggia si allontanava dalla riva, invece, era facile trovare rifiuti e oggetti abbandonati. In un lembo di spiaggia più pulito di altri improvvisammo una partita di calcetto.

Ogni 5 o 6 minuti era indispensabile tuffarsi in acqua. Primo bagno.

Tornammo un paio di ore più tardi per ripararci all’ombra di casa nostra. Non eravamo ancora abituati al clima, imparammo a camminare lentamente e a dosare le energie.

Il primo giorno era dedicato a conoscere il luogo e la realtà in cui stavamo per immergerci.

Malika è un villaggio della periferia nord di Dakar.

Prendendo la strada che dalla capitale prosegue verso nord-est, si svolta a sinistra prima del “Lac Rose” e si prosegue verso il mare. Il cuore del villaggio è proprio all’altezza di questo incrocio. C’è il mercato, numerose botteghe, boutique improvvisate, viavai di carri, pulmini e di tutti i loro derivati. Molta polvere, molti odori e molto rumore.

Quel pomeriggio ero ancora in possesso della mia macchina fotografica.

Scattavo alcune foto ed entusiasta cercavo conferme nella riproduzione. Mi accorgevo subito di quanto poco le foto riuscissero a rendere l’idea di ciò che vedevo.

La complessità dell’effetto visivo che coglie l’occhio umano non è riproducibile, per ora, attraverso la tecnologia.

Da un lato mi spiace non avere la possibilità di condividere quei particolari, dall’altro lato sono contento di poter custodire personalmente alcuni ricordi, sforzandomi ogni volta di farli tornare a galla come se non fossero passati parecchi mesi.

Ricordo ancora bene l’invadenza con cui sabbia e cemento definiscono il paesaggio di Malika.

Non avevo mai incontrato prima d’allora quell’abbinamento. Col tempo divenne familiare tanto da comporre una delle prime immagini che mi vengono in mente pensando al villaggio.

La sabbia, densa e spessa vicino al mare, si fa più stabile e compatta tra le vie divenendo il complemento naturale di ogni oggetto. La sabbia è ai bordi delle strade, dentro i cortili, sotto le case.

Il cemento s’impone perché nessuna casa è pitturata, né dentro ne fuori. Laddove definisce una strada, solo di rado le macchine lo nascondono. Il mattone è ovunque perché il mattone è una sedia, un recinto, un gioco per i bambini.

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Per le vie del villaggio avverto un senso di appagamento e di pace che raramente mi è capitato di provare.

Una sensazione di benessere legata all’umanità che si respira all’interno del nostro gruppo e tra la gente ma che s’inserisce in un ragionamento più ampio.

Ogni problema, così come molti altri aspetti della vita, è qui ancora saldamente legato alla sopravvivenza quotidiana.
Non attribuisco a questa dimensione una connotazione negativa.

Quando infatti l’uomo ha superato la soglia della sopravvivenza, raggiungendo il benessere, non sempre ha colto i vantaggi ottenuti. Più facilmente esso ne è divenuto il suo male.

L’uomo ha sviluppato cultura, scienza e tecnica, ma spesso queste conquiste vengono utilizzate in modo improprio e raramente finalizzate per il bene di tutti.

C’è acqua su Marte, su Facebook si possono ritrovare gli amici delle elementari, la Formula 1 fa i Gran Premi anche di notte. Eppure, leggendo i giornali o discutendo al bar, la gente non sembra più contenta.

Se la differenza tra terzo mondo e occidente non si basa solo su riferimenti economici e qualità della vita ma sul grado di consapevolezza e cultura, qualcosa non torna. Cultura e consapevolezza dovrebbero migliorare una società invece di peggiorarla, eppure, dopo secoli di “civiltà” mi viene più naturale considerare le isole felici del mondo come delle eccezioni piuttosto che la maggioranza.

Dove non ci sono guerre non c’è libertà, dove c’è libertà c’è più gente dallo psicologo che a teatro.

Essere “consapevole” in occidente mi porta a riflettere su un bivio di valori.

La società in cui vivo si caratterizza per progresso e pensiero ma riflette come valori principali il successo, il sesso, la ricchezza. Altrove, l’estrema povertà e inconsapevolezza possono riflettere valori come la dignità, la solidarietà, l’accoglienza.

In quali valori mi riconosco? Quale di queste consapevolezze mi appaga di più nelle conquiste quotidiane?

Una consapevolezza più complessa, che arricchisce il mio intelletto ma che nel contesto in cui è permessa mi allontana dai miei valori, o una consapevolezza minore, povera e limitata, ma che mi permette ancora di stupirmi di fronte al saluto di una bambina che non ha nulla ma si inchina per accogliermi in casa, di emozionarmi di fronte a un tramonto e farmi riconoscere il bene disinteressato per un'altra persona molto più gratificante di un cellulare che fa i video anche di notte?

lunedì 25 gennaio 2010

Fly One Time - PP 0125: MXP - LCY

“Tutte le procedure di sicurezza sono state completate, i passeggeri sono seduti e pronti al decollo, capitano”.
Faccio un cenno di ringraziamento alla hostess, che esce dalla cabina, mentre dalle cuffie ronza il messaggio di via libera dalla Torre di Controllo: “PP IA 0125 cleared to take-off. Runway 35 L”.
“Ok José, andiamo in scena noi” dico al mio fidato copilota madrileno e con un lieve tocco alla manetta porto l'aereo oltre la linea di attesa e lo allineo al centro della pista.


Sono le 7.19 e l'Airbus A318 della PP International Airlines è al fondo della pista 35 sinistra di Milano Malpensa, pronto a portare i suoi cento passeggeri a London City Airport.
Diamo tutta manetta e l'aereo ci restituisce la splendida sensazione di imperiosa potenza incollandoci agli schienali.

"130 miglia all'ora...140...150...”

Tiro lentamente verso di me la cloche e dopo qualche secondo il mondo è là sotto, piccolo piccolo, e noi saliamo attraverso le nuvole di questo fresco mattino di marzo.

Mentre i motori rombano a piena potenza e la salita procede fluida e sicura verso un cielo sempre più blu penso alle persone che siedono a pochi metri da me, immagino le loro storie...


In
Business ho visto la solita schiera di manager in carriera “cravatta-collettobianco-blackberrycompulsivi” pronti, appena giunti a destinazione, ad uscire dall'esclusivo e centrale aeroporto di Londra e a fiondarsi in qualche ufficio nelle Docklands o nella City per una nuova settimana all'insegna delle transazioni a molti zeri.


Ci sarà quel bimbo - chissà quanto sarà emozionato – che appena salito sull'aereo si stava catapultando dentro la cabina di pilotaggio e probabilmente me lo sarei trovato in braccio se non fosse stato per lo steward. Affascinato da tutto, mi ricordava qualcuno... Più tardi mando la hostess a chiamarlo e gli faccio vedere cosa si prova a stare qui, gli piacerà.


E poi, sparsi qua e là, ci saranno – la statistica è infallibile – gli Aviofobici. I passeggeri che, purtroppo, proprio non riescono a godere dello spettacolo del volo. Li vedi già tesi prima dell'imbarco, mentre scrutano il falco di metallo e vetro che li porterà sopra le nuvole. Guardano con attenzione i tecnici che si affaccendano laboriosi tra i suoi artigli e alzano il livello d'allarme quando sembra che uno di loro stia lavorando un po' troppo a lungo là sotto... Una volta messo piede sull'aereo, possono diventare incontrollabili. Incollano gli occhi sugli assistenti di volo, ansiosi di conoscere ogni procedura d'emergenza compresa la collocazione del beccuccio di riserva del giubbotto di salvataggio e leggono una decina di volte l'”apposito opuscolo collocato nella tasca di fronte a sè”. Per non parlare del panico da turbolenza...


Pensando a loro scuoto la testa dispiaciuto, mentre livello lentamente l'aereo alla quota di crociera di diecimila metri, sopra il Lago di Ginevra. Ed è soprattutto a loro che penso cercando di svolgere ogni giorno un lavoro “smooth and clean”.


“Morbido e pulito...” sussurro mentre scendiamo verso il London City Airport in direzione della pista 28. E' un approccio singolare e molto impegnativo – e molto divertente – perchè più ripido del consueto. La pista è di fatto stata costruita in mezzo alla città e la discesa deve avvenire con un rateo di 5.5 gradi invece dei classici 3.

I grandi pneumatici dell'aereo si appoggiano sull'asfalto sollevando una nuvoletta di fumo bianco, mentre i riflessi del pallido sole londinese scintillano sugli specchi d'acqua delle Docklands.


“PP International Airlines vi ringrazia per la preferenza accordata e si augura di potervi accogliere presto sui propri aerei.”


La lounge PP nel terminal dell'aeroporto è piccola ma confortevole. Io e José ci concediamo un assaggio di English breakfast e poi ci salutiamo con un bell'abbraccio. Domani mattina si torna a Milano, abbiamo un giorno libero.

Ho deciso che oggi sarà una giornata di relax. Gli orari di lavoro me lo permettono e Londra ormai è una seconda casa per me, visto che il quartier generale della PP International Airlines è qui. Ho imparato ad amare questa città...E sinceramente non è stato tanto difficile.

Un'enorme, variegata, interessante, divertente, affascinante metropoli, in cui puoi immergerti pienamente senza venirne sopraffatto: “British style”.

Ho trovato una bella casa nel quartiere di Primrose Hill, tranquillo, immerso nel verde, a due passi da Regent's Park.

Entro in casa e penso a mia moglie ed a mio figlio: “Chissà, magari presto saremo qui...Insieme”. La giornata scorre tranquilla tra il jogging a Regent's Park, un sonnellino ed un po' di ottima televisione inglese.

Le 19.00: suona il telefono. E' José. Mi propone di accompagnarlo in un locale, il “Met Bar”. Mi concedo uno strappo alla regola e gli do fiducia: è lui quello che conosce la “London by night”!

Un'ora dopo siamo seduti ad un tavolino di fronte ad una mezza pinta di ottima lager inglese. Il locale è molto trendy, molto “contemporary art”...Francamente asettico e poco stimolante. L'unica cosa che realmente mi stimola in questo ambiente è l'invitante visione di uno splendido pianoforte a coda Yamaha, nero, lucido. Ecco uno splendido pezzo d'arredamento, altro che due fili di rame intrecciati intorno ad una mela verde e spacciati per opera d'arte contemporanea di un presunto artista sudcoreano mentecatto.

Mentre parlo con José del nostro lavoro, della nostra compagnia e delle future nuove tratte da affrontare, l'occhio mi cade su una figura che si avvicina al pianoforte.

Eccentrico - “guarda che occhiali!” - basso, grasso e sudaticcio, sgraziato, si siede davanti alla tastiera. Si guarda intorno e inizia a suonare qualche nota. Noto che ha delle dita incredibilmente tozze. Mi ricorda qualcuno, ci sa fare... No.

Lui. Qui. Il Baronetto.

Appena sente che il mormorìo di stupore e meraviglia, che si era rapidamente diffuso nella sala, cala per concedere tutto lo spazio possibile ad un così unico e inimitabile talento, comincia a suonare per davvero. Decolla. Ed io con lui, chiudo gli occhi e salgo tra le stelle.

E' Musica…Mi godo fino in fondo questi dieci minuti.

Penso a Lei, a nostro figlio, alla mia vita. “It's just my job five days a week”.

Una gemma rara, un ricordo prezioso. Il mattino successivo ripasso ancora mentalmente i passaggi delle improvvisazioni al pianoforte di Elton, ancora in estasi mistico-musicale, mentre mi trovo su un taxi, nuovamente diretto a London City Airport. Su Silvertown Way, poi, vedo spuntare la gigantesca cupola del Millennium Dome e buona parte della poesia che mi portavo dietro scompare all'istante.

Diecimila metri di altitudine. 580 miglia orarie di velocità. Il GPS indica che stiamo passando sopra Parigi in questo momento. José commenta: “Anche oggi si vola alla grande, neanche un intoppo...”

Squilla il telefono della cabina. Rispondo io, sarà la hostess che chiede cosa vogliamo per colazione. Non riesco quasi a sentirla, la sua voce è coperta dalla musica. Gente che fa baldoria, che canta “Na na na... Na na na...”.

Lascio i comandi a José e vado a controllare che cosa sta succedendo là dietro. Apro la porta della cabina e resto a bocca spalancata: tutti i passeggeri con le braccia alzate, le muovono a destra e a sinistra ritmicamente. In fondo all'aereo, un uomo vestito completamente di rosso, con degli occhiali da sole verdi, suona un organetto e canta a squarciagola “Take me to the pilot”. Quando mi vede, smette improvvisamente di suonare e mi corre incontro.

Mi abbraccia, piangendo. Confuso, lo conforto, mentre i gradi sulla mia spalla destra si bagnano sempre di più. Poi, quando si stacca dalla morsa con cui mi si era avvinghiato e si toglie gli occhiali per asciugarsi gli occhi, lo riconosco.

Lui. Il Baronetto. Sir Elton John.

Aviofobo.

Take me to the pilot, baby!

martedì 19 gennaio 2010

Ultimo istante

E’ arrivato il momento. Lo so, lo sento. In un letto d’ospedale percepisco il calore dei miei cari. C’è mia moglie di fianco a me; è seduta e c’è mio figlio, il più grande che le tiene la mano. Mi fissano. Mi accarezzano. E piangono. Sembra che io abbia trasmesso loro la mia convinzione che la mia vita sta per finire qui. E’ giunta al capolinea e anche loro ne sono consapevoli.

Potrei passare questi ultimi istanti, aspettando che giunga davvero il mio “ultimo istante”. No. Non voglio. Provo a guardarmi indietro e a rivivere ciò che è stata la mia vita. Facendone un’analisi oggettiva. Tanto lo so, appena tutto questo finirà, c’è chi mi giudicherà con obiettività ancor maggiore di quanto non possa fare io in questo momento. Arrivato a questo punto cosa serve illudermi di aver fatto…e di averlo fatto bene, o almeno con l’intenzione giusta. Vado indietro, e indietro ancora. Ripercorro tutti i fatti salienti della mia vita, quelli gioiosi e quelli tristi. Eppure non la trovo. Ci sarà una ragione se ho vissuto gli ultimi anni della mia vita in un letto attaccato a ingombranti macchinari. Perché tutto ha una causa scientificamente parlando, o forse tutto ha uno scopo cristianamente parlando. Non lo so. Dipende da me allora. A cosa scelgo di credere? E’ difficile. Pero sto continuando a cercarla, ma di “lei” non c’è traccia. Mi sembra di aver fatto le scelte giuste. Ho lavorato, ho messo su famiglia. Ho dato tutto l’affetto possibile a chi mi sta vicino e a chi amo. Insegnando loro a vivere secondo sani principi, per quanto la dimensione di “uomo e basta” mi conceda di insegnare. Però, parliamoci chiaro. Qualcosa avrò pur fatto per meritarmi tutto questo. “Lei” c’è, per forza di cose. Se è vero che ad ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria, allora a chi ho fatto del male. Aiutatemi a capire.

Entra il mio secondo figlio maschio. E’ il più piccolo dei tre. Lo guardo. E si. Forse proprio con te ho sbagliato. Sappiamo entrambi come è andata. D’altronde quello che è successo, è successo anche per colp…No, impossibile. Forse l’irrefrenabile desiderio di cercare “lei”, mi convince a vederla anche dove non c’è. E’ successo si, ma in fondo io non c’entravo niente e poi insomma si è sistemato tutto. Bah…

Basta ci rinuncio. Tanto per quanto cerco e ricerco non la vedo. Ora posso vivere gli attimi finali senza pensare più a nulla. Però so che devo ancora attendere. Non ci sono tutti ancora. Ma quanto ci metti? Dai muoviti non ce la faccio più…Non reggerò ancora a lun…ah, Finalmente. Eccoti. Ci sei anche tu. Ti guardo figlia mia. Anche se non mi credi, io ti sto guardando. Non piangere, non devi.

Va bene mi sembra ci sia tutto. Sono tutti qua. Mia moglie e i miei tre figli. Me ne posso andare in pace. Ma “lei”, la ragione della sofferenza non l’ho trovata. Vabbè non importa. Arrivato lassù forse qualcuno me la spiegherà. Intanto lascio questa stanza in cui sembra essere condensato tutto l’amore che ho sempre avuto e che sempre mi ha dato rifugio nei momenti difficili. Magari “lei” e proprio questo. Non è quella ragione scientifica, quel principio di azione e reazione applicato al nostro trascorso. Probabilmente è soltanto quella forza che, quando cerchi un motivo razionale e non lo trovi, ti spinge a cercare al di là. Ti spinge a convincerti che oltre a quello che tocchiamo e sentiamo, c’è qualcos’altro in cui però possiamo soltanto credere perché non l’abbiamo mai visto.

Ok. Stop. Vi saluto miei cari. Mi chiamano e non posso fermarmi oltre. E così, dopo un ultimo respiro libero e pieno come da anni non lo era stato mai, chiudo gli occhi e...e inizio a sognare.

lunedì 18 gennaio 2010

Fly One Time - PP 2501: NCE - AJA

"Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare."

Leonardo ci aveva visto giusto. Quante volte ho ripensato a questo aforisma negli anni di studio e pratica...
E come non pensarci durante il mio primo volo da pilota di linea!


Lo ricordo come fosse ieri, ero copilota del volo Nice Côte d'Azur – Ajaccio Campo dell'Oro in una calda serata di giugno.
Dopo tanti sacrifici, la fresca assunzione alla PP International Airlines, emergente compagnia inglese, mi avrebbe permesso di solcare i cieli del mondo: il sogno era diventato realtà.

Quella sera eravamo impegnati su una tratta breve ed il piccolo ATR 72 fece il suo dovere nei previsti 50 minuti di volo, permettendoci di gustare uno splendido tramonto. Le condizioni meteo erano buone e stabili ed il comandante mi lasciò effettuare avvicinamento ed atterraggio alla pista 09 dell'aeroporto di Ajaccio.

“Campo dell'Oro... We will walk in fields of gold” pensavo sorridendo mentre il taxi si allontanava dal terminal. Il volo di ritorno per Nizza era programmato per le 10.00 del giorno successivo e mi stavo spostando verso l'albergo in cui avrei trascorso la notte. Avevo scelto qualcosa di più caratteristico dell'hotel di fianco all'aeroporto, dove andò invece il resto dell'equipaggio.

Venti minuti più tardi ero di fronte al “Carpe Diem Palazzu” a Suarella. Salutai Petru, il simpatico tassista di Bastelicaccia che mi aveva portato fin lì e respirai a pieni polmoni l'aria della Corsica verace, quella dell'entroterra, quella che sapeva di muschio e cinghiale... Un attimo dopo ero seduto ad un tavolo del ristorante dell'albergo con l'acquolina in bocca.

Mi guardai intorno: nella piccola sala c'erano tre persone oltre a me. Un'anziana signora che portava sul viso i segni profondi di una vita vissuta in pienezza e semplicità mi sorrise mentre, curva curva, sorseggiava lentamente dal cucchiaio il suo aziminu di pesce.
Ad un altro tavolino sedevano due uomini di mezz'età vestiti di nero.
Sembravano attori teatrali e parlottavano tra di loro in questa lingua a me ancora sconosciuta ma già simpatica: il corso, un misto tra sardo, genovese e toscano. Di tanto in tanto, mentre assaporavo fricassea d'agnello e figatellu brasato alla birra Pietra qualche parola arrivava alle mie orecchie: “Nuvellu”, “gemellu”...
Ero interessato e divertito da questi due personaggi e dal loro strano dialetto così, finito il dolce a base di pisticcini e canistrelli, andai al loro tavolo e mi permisi di offrir loro un buon mirto corso.

Andammo avanti a chiacchierare per molto tempo e molto mirto. Cercai di farmi insegnare il corso e alla fine della serata lo parlavo un po'. O forse era il Mirto del Niolu a parlare per me... Comunque scoprii che i due presunti attori in realtà erano musicisti autoctoni e li ascoltai affascinato mentre mi parlavano del profondo legame con la loro terra, un grande amore che cercavano di trasmettere attraverso le loro opere. A un certo punto, tutti e quattro – la signora si era unita al gruppo – caldi e vivaci, improvvisammo un quartetto polifonico in pieno stile isolano sulle note del “Nessun dorma”. Ecco, fu quello il momento in cui realizzai che era ora di andare a dormire dal momento che la mattina successiva avrei dovuto pilotare un aereo.

Raggiunsi la mia stanza e crollai sul letto. Una luce fastidiosa mi puntava dritta negli occhi: era una notte di luna piena e la finestra aperta mi regalava generosa questo spettacolo. Chiusi gli occhi e cercai di addormentarmi...
Percepii una presenza fuori dalla stanza. Ero sicuro che ci fosse qualcuno dietro la porta. Mi alzai circospetto, andai ad aprire e...

Un muflone.
No, no. Momento... Chiusi la porta. La riaprii...
E sorrisi, era stato tutto frutto della mia immaginazione. Era solo una capra.

Mi guardava e poi puntava il muso verso le scale, ripetitivamente, senza parlare. Fece due passi, poi si fermò e mi fece cenno di seguirla.
Uscimmo dal “Carpe Diem Palazzu” e poi Capra iniziò a trotterellare allegramente verso un bosco. La seguivo a distanza, cercando di non perderla di vista nella lattiginosa luce di quella notte. E poi via a scalare rocce, saltare crepacci, attraversare campi di grano, giù, fino al mare, dove l'amica ovina si fermò. Piano piano, mi feci vicino. Vidi che stava fissando una nave che si allontanava lenta verso l'orizzonte e lessi una nota di nostalgia nei suoi occhi. Poi si girò verso di me e fece “Beee beee beee”...

Beee beee beee. Il telefono in camera squillò puntuale alle 6.30 e mi svegliai di soprassalto. Mi alzai dal letto con tutti i muscoli indolenziti e mi preparai per lasciare la stanza. Dopo una doccia veloce, uscendo dal bagno, notai qualcosa per terra, vicino alla porta. Era un CD. Lessi l'etichetta: “Per B.T. … Aspettami”. Era scritto davvero male – pensai – guardando la pessima grafia di chi al posto delle mani potrebbe avere degli zoccoli.

Rimasi pensieroso per tutto il viaggio in taxi verso l'aeroporto. Di fatto ero rimasto poche ore in quel mondo fatto di mare, montagne, musica e sapori, ma sentii che mi aveva segnato. Profondamente segnato.

Alle 9.59 ero nell'ATR 72, sulla pista 20 di Ajaccio Campo dell'Oro.
“Torre di controllo, chiediamo il permesso di decollare in direzione Nord.” “Permesso accordato.” Feci un cenno al comandante da dietro lo specchio dei miei occhiali da sole e diedi piena potenza ai motori.


Aspettami Corsica... Presto ritornerò.

venerdì 15 gennaio 2010

Senegal 2009 - "Qualche istante dopo ero in cucina ad assaggiare mango e papaya, la luce della stanza era abbagliante."

Rimasi per la maggior parte del volo fissando il piccolo monitor sopra al sedile davanti. Guardavo incuriosito il percorso virtuale dell’aereo, la velocità, l’altezza, controllavo l’orologio e facevo confusi calcoli sull’orario previsto d’arrivo. Monitoravo i rumori del motore, sorvegliavo i volti delle hostess e passavo nervosamente la mano tra i capelli.
Ogni volta che prendo un aereo viaggia con me un passeggero in più. Si siede dove mi siedo io e rimaniamo per tutto il tragitto affossati in un unico sedile. Stiamo scomodi, spesso non riesco neanche a togliermi la giacca, entrambi non ci addormentiamo mai e muoversi in uno spazio così angusto ci risulta complicato al punto che non sono mai riusciti a vedere come sono fatti i bagni di un aereo.
L’ansia, così chiam
o il mio intimo compagno di viaggio, pesava il doppio dopo essere partiti da Lisbona.
Salire su un aereo diretto in Africa accentuava le mie suggestioni negative. Come se gli aerei, varcato il confine europeo, peraltro immaginario, diventassero meno affidabili, le condizioni atmosferiche più critiche e il personale aereo meno professionale.
Avevo previsto queste sensazioni, così come tanti altri timori che avrei incontrato nei giorni seguenti.
Il miglior modo per vincere le paure è affrontarle. E’ una frase da film, ma io l’avevo sentita pronunciare in una serata tra amici, mangiando una pizza dopo un allenamento.
Quando staccai le cinture di sicurezza sorrisi intimamente e pensai a quel giorno.

Dakar, 23-07-2009, ore 01.30 circa

Il primo respiro scendendo la scaletta dell’aereo mi ricordò la sensazione che si prova aprendo un
a lavastoviglie che ha appena terminato il lavaggio. Un calore umido e denso. Affrettai il passo ed entrai in una hall seguendo coloro che mi precedevano senza badare troppo a dove andassi.
A mesi di distanza sorrido per la premura con la quale ci cospargemmo di “autan plus” già all’interno dell’aereoporto di Dakar. Nonostante le sale dove si ritiravano i bagagli fossero dotate di aria condizionata e fossero fresche come i corridoi degli yogurt al supermercato, inaugurammo i flaconi blu anti zanzare senza la minima esitazione.
Compilammo un modello alla dogana, mostrammo più volte il passaporto e infine ci dirigemmo ver
so l’uscita principale. Euforia e un misto fra stanchezza, diffidenza e preoccupazione furono gli stati d’animo che mi accompagnarono nei minuti successivi.
Dimenticherò difficilmente l’ora successiva all’atterraggio.
Un lasso di tempo, probabilmente più lungo di sessanta minuti, che va dall’incontro con il gruppo Renken fuori dall’aeroporto, al banchetto improvvisato nella casa a Malika.
Lara e Claudia erano le uniche persone che nel buio di Dakar si potevano riconoscere.
Con le mie due valigie mi muovevo con circospezione e lentamente, seguendo le voci familiari ma non riuscendo a distinguere la maggior parte degli oggetti che avevo intorno.
Non mi aspettavo quell’oscurità, non l’avevo calcolata tra i miei tanti pensieri delle ore precedenti.
Solo nei pressi del nostro pulmino, un riflettore della pista d’atterraggio diffondeva una luce più intensa e cercai di mettere a fuoco le persone intorno a me e il nostro mezzo di trasporto.
Il piccolo bus era bianco, vecchio e ammaccato in più parti. Vetri quasi tutti frantumati e motore rumoroso.
La mia attenzione fu catturata da un ragazzo che da sopra il tettuccio ci esortava a passargli le valigie più pesanti.
Le prendeva, le solleva senza troppa fatica e le organizzava una vicino all’altra, ognuna di es
se era fissata da una corda che univa i due lati estremi del tettuccio. Rimasi qualche secondo fermo aspettando di vedere cosa avrebbero fatto gli altri, dopodiché passai anche la mia borsa. Ero ovviamente perplesso circa l’arrivo a destinazione delle nostre valigie.
Salimmo tutti dalla parte posteriore del pulmino, sedendoci dove capitava. All’interno, quel buio che non conoscevo divenne nuovamente protagonista, in poco tempo mi trascinò in una dimensione che fatico a descrivere.
In realtà non so nemmeno definire bene cosa mi successe. Si è trattato di un’esperienza molto personale che in maniera diversa credo sia toccata a tutti i miei compagni
di viaggio.
Il pulmino divenne il posto più silenzioso del mondo. Le persone all’interno, i loro volti, i loro dialoghi, ogni cosa che non mi riguardasse direttamente rimase in secondo piano, lontano.
Gli stimoli di senso dall’esterno erano talmente numerosi che il mio cervello deve aver separato la mente dal corpo, facendo in modo che nessun odore, nessuna immagine, nessun particolare che coglievo lungo la strada andasse perduto.
La testa, accesa e lucida, prendeva nota del buio incredibile, dei dialoghi accesi tra il guidatore e la polizia che ci fermava nei posti di blocco, della strada deserta piena di dossi, della periferia di Dakar, muta e incompleta come una città bombardata.
Il corpo, sedato e
stanco, non l’avvertivo. Non ricordo a fianco di chi fossi seduto, né dove. Non scambiai una parola con nessuno per tutto il viaggio e con pantaloni lunghi, scarpe pesanti e zaino addosso non versai una goccia di sudore.
La strada che percorrevamo era dissestata, fossi, dune, brusche frenate. La velocità moderata permetteva di osservare fuori dal finestrino con attenzione. Avevo il tempo di riconoscere ogni oggetto, una casa, una bici, un pneumatico abbandonato, guardarlo per pochi istanti costruendo attorno la sua probabile storia.
Il bombardamento di odori e immagini mi aveva completamente inebetito.
Quando scesi da
l pulmino, circa un’ora più tardi, ero ancora intorpidito e mi ritrovai a girare su me stesso senza capire cosa dovessi fare.
Non mi aspettavo una sabbia cosi soffice da impedirmi di fare i movimenti più elementari, le scarpe da ginnastica vi affondavano come nelle sabbie mobili.
Nessuna luce artificiale, solo la luna, le stelle e deboli riflessi luminosi di alcuni oggetti. Non vedevo nulla, non riconoscevo nessuno e per trovare la mia valigia impiegai qualche minuto.
Questa fase pseudo onirica fu definitivamente spezzata da un’immagine che ricordo particolarmente bene. Guardando verso il mare vidi Fabrizio correre a fatica sulla sabbia con due valigioni in mano. Mi vennero in mente le parole di Claudia a proposito della sistemazione nelle camere, immaginai che Fabrizio fosse stato più s
veglio di me e segui il suo percorso che ci porto all’ingresso di casa Renken.
Qualche istante dopo ero in cucina ad assaggiare mango e papaya, la luce della stanza era abbagliante.

Malika, 23-07-200
9

Avevo immaginato che tante cose mi avrebbero lasciato un segno ma non avrei mai creduto che sarebbe bastata l’esperienza di una notte africana, appena pochi istanti dopo essere atterrato, a suggestionarmi come un bambino la notte di Natale.
La notte, quella vera, quella dove per capire le distanze tra le persone bisogna aspettare che qualcuno parli in modo che tu possa calcolare da dove proviene il suono della loro voce. Quella che quando guardi in alto ti sembra di non aver mai visto prima un cielo stellato.
Dopo lo spuntino in cucina, abbiamo passato qualche minuto sul terrazzo. Parlavamo sottovoce, guardando un po’ il mare un po’ il cielo. L’oscurità ha creato intimità nel gruppo e abbiamo dimenticato in fretta la stanchezza del viaggio.

lunedì 11 gennaio 2010

Fly One Time - #0

E poi...Quell'attimo.
Prezioso, intenso, sospeso nello spazio e nel tempo.

Dovrei averci fatto il callo ormai, invece ogni volta è la stessa sensazione: un sottile e piacevole brivido che dal collo scende giù, lungo la schiena. E...


Terra.
Una ricca trama di sentieri luminosi adagiati nell'oscurità mi accoglie.
Una voce familiare e fidata indica la via che docilmente percorro.

Una decina di minuti più tardi sono solo. Passeggio sulla pista.
E' il piacere a cui non rinuncio mai dopo l'atterraggio: osservo, ascolto. In silenzio sento ed assaporo nel profondo ogni suono, ogni sfumatura di luce di questo mondo che sento mio.

E' una fredda giornata invernale e soffia un forte vento da Nord-Ovest.
Intorno a me, lo spettacolo unico dell'arco alpino che circonda Torino.
L'atmosfera è di una limpidezza cristallina tanto che riesco ancora a vedere il Monviso. Ecco, laggiù a Sud-Ovest, il suo profilo superbo ed elegante che si staglia sul cielo di ambra, cobalto e zaffiro.


Già, il cielo. La mia passione fin da quando ero bambino. Ne ero magneticamente attratto e non vedevo l'ora di salire su un aereo per immergermi in quel blu e contemplare il mondo da una prospettiva unica. E poi la magia della cabina di pilotaggio: rimanevo a bocca aperta di fronte a quella distesa interminabile di strumenti ed indicatori misteriosi ed affascinanti...

Una gelida folata di vento mi desta dai piacevoli ricordi. Sono già fuori dal terminal. Un'auto suona il clacson: “E che vuole questo?” penso. Mi giro... Sorrido, mi avvicino e salgo.
Bacio la pilota – è sempre splendida – e mi compiaccio nel vedere che là dietro il terzo ufficiale ha già ultimato le comunicazioni con la mucca ed il gallo in Torre di controllo. Lo accarezzo mentre si gode il meritato riposo.

Dalle casse della radio di bordo batte il ritmo di “Fly one time” e mi scalda ancor di più il cuore.

Decollo. Destinazione: casa.

venerdì 8 gennaio 2010

Lentamente muore

Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente
chi evita una passione,
chi preferisce il nero sul bianco
e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore
chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente
chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna
o della pioggia incessante.

Lentamente muore

chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.

Martha Medeiros

giovedì 7 gennaio 2010

...

Non c’è alcun dubbio. Hai la situazione sotto controllo.
Procede come nei tuoi piani e nei tuoi progetti. Hai studiato il modo di procedere e sai cosa dover fare per fare andare tutto secondo programma.
Ecco che, però, accade … ma porca troia, com’è successo … da dove cazzo è arrivata … ti incasina tutto e la tua sicurezza va a farsi fottere, sbiellando dietro alla confusione che inesorabilmente manda in frantumi le tue certezze e capisci subito che c’è il suo zampino: l’imprevedibilità.
Con quel poco di fermezza che ti è rimasta capisci che puoi fare due cose:
o affondare definitivamente nella facilità della sconfitta,
oppure sputare sangue e rialzarti per riprenderti a morsi quello a cui puntavi.
Bhe sai che c’è, c’è che devi ringraziare che sia arrivato sto casino, perché ti rialzerai in piedi e sarai un uomo migliore di prima.

Imprevedibilità


martedì 5 gennaio 2010

Pensieri di un ateo morente










Disteso sul mio ultimo letto, circondato dai miei cari, lascio il mondo che ha ospitato la mia esistenza.
Non saprei dire se ho vissuto la mia vita a pieno, ma soprattutto ho capito che questo non ha im
portanza: cosa conta al momento della fine?
Si chiude definitivamente il sipari
o per me, tocca agli altri far vivere questo teatrino senza regista né spettatori.
Quel che è stato, è stato, e nella totalità della mia esistenza non ho trovato un motivo valido a tutto ciò. Tutto sommato, anche se lo avessi trovato, non avrei saputo cosa farmene.
Allaccio le cinture: ecco, entro nel nulla infinito, nel buio eter
no.

venerdì 1 gennaio 2010

Incrocio (part II)

Leggere prima la part I

7.52. Mi ha detto che di solito arriva verso le 8.00… E se oggi fosse passata in anticipo? Ma no, dai che tra poco arriva…

8.01. Ancora niente. Eppure non ho visto nessuno che assomigliasse
a questa foto. Arriverà da un momento all’altro. Comunque la posizione è perfetta, posso vedere in faccia tutti quelli che passano senza dare nell’occhio.

8.07. Merda. Niente di niente. Non è che quel tipo mi ha preso in giro? La prossima volta mi faccio dare una percentuale prima del lavoro. E se fosse davvero passata in anticipo? O magari oggi non passa proprio di qua… Eccola! E’ lei, è lei! Perfetto, non mi ha ancora visto. Arriva la metro… Non credevo si mettesse a correre. In effetti, sarà in ritardo. Devo avvicinarmi un po’, se no rischio di restare fuori…
Eccoci! Starò qui in piedi. Credo che non mi abbia ancora visto. E’ troppo presa dal suo fiatone esagerato, sembra che abbia appena finito di correre una maratona. Mamma mia quant’è brutta… 90kg di carne in meno di un metro e settanta.
Mi ha visto. Comunque mi sono girato in tempo, non si sarà neanche accorta che la stavo guardando. Allora, la sua fermata è la prossima. Aspetterò un attimo dopo che sarà scesa per scendere anche io.

Tutto liscio. E ho anche individuato il posto perfetto per stasera, quell’angolo buio tra le due rampe di scale.
Oh merda, proprio adesso doveva trovare qualcuno con cui parlare?! Vado… di là! Attraverso la strada. Uff… Questa non ci voleva.
Ecco, mi ha visto di nuovo. In ogni caso, per lei sono una persona qualunque che per caso è scesa alla sua stessa fermata, magari non si è neanche ricordata di avermi già visto in metro.

Bene, è entrata in ufficio. Se le indicazioni del tipo sono giuste dovrebbe uscire alle 17.30 e fare la stessa strada a ritroso. Strada che oggi si concluderà in un angolo buio della stazione della metropolitana, dove il mio coltello incontrerà vittorioso la sua gola, dissetandosi dopo un paio di settimane di digiuno. Scommetto che non vede l’ora…