TEMA: La mia prima settimana di scuola
SVOLGIMENTO:
Questa che è appena finita è stata la mia prima settimana di scuola. La maestra ha dato a tutti noi come compito per il week end un tema in cui descrivere la mia prima settimana di scuola e io ne approfitto per mandarvi il consueto, atteso aggiornamento. Che sia atteso non lo so, ma certo non potete dire che non sia consueto.
Lunedì mattina, come ogni bravo alunno diligente alle prese con il suo primo giorno, mi presento con un quarto d’ora d’anticipo davanti al portone della scuola. Subito incontro il preside che mi saluta cordialmente e mi invita a seguirlo nella sala riunioni, dove incontro altre tre ragazze asiatiche, anche loro alle prese con il loro primo giorno, ed evidentemente più diligenti di me. Subito veniamo messi alla prova per testare il nostro livello di inglese ed essere così inseriti nella classe a noi più appropriata. Con una certa soddisfazione posso dirvi di essere stato inserito nella classe che sta proprio un gradino sotto quelli bravi bravi. Quelli, per intenderci, che l’inglese lo sanno eccome, e magari sono lì per migliorare la grammatica, per rendere più fluido il loro discorso e così via: per me, che l’inglese lo devo imparare e non lo devo perfezionare, è stato un successo.
Così incrocio la professoressa per le scale e insieme facciamo il nostro ingresso nella mia nuova classe, dove gli altri studenti attendevano seduti, chiacchierando amabilmente tra di loro. Quello che dovete sapere su questi studenti è che sono tutti, nessuno escluso, con gli occhi a mandorla. Quindi appena mi hanno visto entrare hanno tutti, nessuno escluso, fatto un “OHHHH” di esclamazione, che non necessita ulteriori spiegazioni.
Prendo posto davanti a tutti, così come vuole la professoressa, e nell’attesa generale, vengo invitato a presentarmi: “Ciao, mi chiamo Fabrizio” mi limito a dire. Mi giro a vedere le loro facce stranite, mentre con fare contrito e con smorfie indicibili provano a ripetere il mio nome, cercando di farlo nel modo più corretto possibile, in modo da non offendermi: “Forizii? Fabiziuuu? Papiziiii?”. Niente da fare. Come i bambini quando dai loro un giocattolo spento e loro ti guardano un po’ incuriositi e spaesati, io non ero riuscito a farmi capire abbastanza. Così mi viene il lampo di genio, quella giocata da fuoriclasse che pochi al mondo hanno: “Ma se volete potete chiamarmi Fabio. Per me è uguale” dico, e vedo il loro sguardo illuminarsi, irradiarsi di gioia, mentre tra urla di giubilo, sorrisi grandi così, danze di benvenuto e bottiglie stappate a festa ripetono, gridano all’infinito il mio nuovo nome. Ho visto scendere anche qualche lacrima: in quel momento ho acceso per loro il nuovo giocattolo che tanto desideravano. Mi giro verso la professoressa e anche lei è raggiante. Fabio è notevolmente più facile anche per lei. Ed è così che, per la prima volta nella mia vita, divento a tutti gli effetti Fabio Billero. Ora sono diventato uno di loro, sono stato accettato nel branco, e posso finalmente prendere il posto che mi spetta, vicino a due ragazzi che si affrettano a sgombrare la scrivania e allontanare la sedia dal banco, per farmi accomodare e riempirmi di domande del tipo se ho Facebook, cosa faccio nella vita e se conosco Park, quello che gioca nel Manchester United.
Anche se sembrano tutti uguali, sto imparando in questi giorni a distinguerli per provenienza e scopro pian piano che sì, hanno tutti gli occhi a mandorla ma che no, non sono tutti uguali. Sono coreani, del sud ci tengono a precisare, con una fermezza che mi ha fatto ricordare che un po’ dappertutto ci siano problemi di divisione e che forse a loro tutte le storie sul federalismo, sulla secessione, sulle trote e sulle feste dell’unità vere o presunte farebbero un po’ ridere; giapponesi, pieni di una dignità e di un rigore morale così alieni e lontani dal nostro modo di approcciarci alle tragedie da farmi venir voglia di diventare giapponese anch’io, e taiwanesi, che poi sono come i cinesi solo un po’ più ricchi.
Questi sono i miei nuovi amici, con cui passo buona parte delle mie giornate australiane e con cui condivido la scoperta di una cultura e una lingua nuova per tutti, la curiosità reciproca nel conoscere usi e costumi di popoli così lontani dal mondo con cui siamo abituati a confrontarci abitualmente, la fatica e la gioia di comprendere un gesto di cortesia e di amicizia in un contesto dove le regole dell’approcciarsi all’altro sono tutte da riscrivere, e così via.
In tutto questo condivido con loro anche il pranzo: al rientro dalla pausa, che solitamente tendo a fare fuori dall’aula per conoscere altri ragazzi, per sgranchirmi le gambe e fare due chiacchiere con Alec che sta nella classe vicina alla mia, non vi dico da quali e quanti odori venga assalito: resti di pollo all’arancia, di spaghetti in acqua marina con uova, involtini di riso al wasabi, calamari e totani talmente fritti da essere neri assalgono le mie narici, penetrano le potenti barriere olfattive che anni di allergie avevano rafforzato per questi scopi, arrivano dritte al mio cervello e mi ricordano che in fondo in fondo è giusto ritenere che qualche differenza tra me e loro ci sia, nonostante tutto.
Ma per non essere scortese ho dovuto accettare il cibo offertomi nelle uniche due occasioni in cui mi sono attardato ad alzarmi e uscire dalla stanza prima che loro imbandissero la tavola a nozze: una volta ho accettato due totani e un pezzo di pollo, rigorosamente mangiati con le bacchette, per cui ho passato buona parte della mia serata sul bagno a maledire Marco Polo e la Via della Seta, e oggi ho replicato con pezzo di sandwich che masticavo mentre, come i monaci Chao Lin, facevo di tutto per non essere lì con il mio corpo pensando al gol di Grosso contro la Germania, per cui sono ancora qui a scrivervi, cosa che interpreto come segnale positivo.
Concludo con un aneddoto su Alec, che in questi giorni ho imparato a conoscere meglio e che fa davvero pisciare dal ridere: mi ha confessato, pregandomi di non dire niente a Mary, che il suo vero nome è Alex ma che la prima volta che si è presentato a lei, la nonna ha capito Alec. Quindi dal suo primo giorno in questa casa lui è diventato Alec, mentre per tutti gli altri, e da ieri anche per me, è ovviamente Alex.
Insomma, la storia dei nomi sbagliati sembra essere una costante di questi approcci australiani!
Inauguro in questa occasione una rubrica a cui ho pensato molto in questo periodo e a cui tengo particolarmente, perché vera cartina tornasole delle differenze socio-culturali che separano le due parti del mondo. Il titolo che ho deciso di dare a questa rubrica è: “Proverbi italiani che non hanno senso se li dici in Australia”.
Il primo proverbio italiano che non ha senso se lo dici in Australia è:
Chi va a Roma perde la poltrona.
Baci a tutti, al prossimo aggiornamento
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