Non mi sono mai lanciato con il paracadute.
Non per paura del vuoto, dell'altezza, della morte. Non l'ho mai fatto per paura di stare troppo bene. Perchè ho sempre immaginato che quella sensazione di mancanza di respiro che si avverte in discesa libera fosse il vero senso della vita. E vivere a pieno dopo la morte di Marilyn non mi è mai sembrato naturale.
Ora posso dirlo: non mi sono mai lanciato col paracadute perchè Marilyn è morta troppo presto. Per la sua morte non ho fatto niente che potesse regalarmi anche solo la più piccola emozione.
Per la sua morte non ho vissuto.
Ho toccato l'apice della mia vita a trent'anni e il resto dei miei giorni l'ho passato nel ricordo. Perchè stare con Marilyn è stata l'emozione più incredibile che un uomo possa possa mai pensare di vivere, ma senza di lei niente ha più avuto un senso compiuto.
Perchè Marilyn era la Bellezza, era la Passione, era la Pazzia dell'Uomo per una donna, lei era la Donna. Perchè Marilyn era la Vita e dopo di lei io non sono riuscito più a vivere.
Sono passati infiniti anni da quell'unica notte vissuta insieme. Non abbiamo fatto l'amore perchè lei stessa era l'Amore. Sono stato semplicemente dentro di lei, ma nel farlo non mi sono sentito appagato, pieno, soddisfatto. Perchè per sentirla mia totalmente Marilyn non sarebbe bastato possederla: avrei dovuto sostituirmi a lei, prendere il suo corpo, entrare totalmente in lei. O meglio: lei sarebbe dovuta entrare totalmente in me. Per sentirla totalmente mia, Marilyn avrei dovuto mangiarla.
Non l'ho fatto, non scherziamo. Non sono pazzo.
Ma quella notte, dopo tutto quel furore, lei si è addormentata tra le mie braccia. E aveva il viso di un Angelo. In un istante ho capito che Marilyn non sarebbe mai potuta essere mia per sempre, che una dea non sarebbe mai potuta stare con un uomo. Almeno, non con uno solo.
E allora la ammazzai.
What if I say you're not like the others?
Point Particle è un blog nato per ospitare le idee e i pensieri di chiunque voglia scriverci. Nella sua pur breve vita, ha accolto e fatto leggere pezzi molto diversi, scritti da persone molto diverse. Pezzi che forse raccontano la storia di chi li ha scritti, o magari l'accarezzano soltanto. Frutti di un'ispirazione che a volte riesce a disporre le lettere una di fianco all'altra proprio in quel modo che ti fa provare qualcosa di speciale. Un'ispirazione che si è manifestata in persone normali, come te e come me. Persone che hanno deciso di condividere qualcosa con chiunque passasse di qui, anziché perdere i propri pensieri nei meandri della mente.
Perché chi deposita qualcosa in questa piccola banca non ha niente da perdere, ma chi apre questa pagina e legge qualche pezzo ha molto da guadagnare.
E allora... Buona lettura!
giovedì 22 luglio 2010
lunedì 12 luglio 2010
Ducati
Un rombo assordante accompagna Un'ombra nera nella notte. La vedo per un istante. Poi scompare.
Fulminea. Lasciando dietro sé una scia di rumore tuonante. Quello rimane. Ne percepisco le vibrazioni nell'aria ancora dopo qualche minuto.
Un sogno. No, troppo veloce per essere un sogno.
Riccardo accarezzava il brivido pericoloso della velocità, mentre spezzava le barriere del vento e del tempo. Solo. Con la sua moto.
Non si rendeva davvero conto di sfidare quella linea sottile che divide quasi impercettibilmente la vita dalla morte, la corsa dal baratro, la suggestiva finzione dalla spaventosa realtà, lanciandosi tra le curve come verso il vuoto.
Il freddo congela le lacrime e imprigiona le emozioni dietro la porta del domani.
La percezione della velocità paralizza il dolore, lo lascia indietro, alla partenza, e da esso fugge in un attimo, e ogni attimo se ne allontana di più.
Passando fulmineo per le strade, poteva tenere il resto del mondo fuori dal casco: la paura, l'angoscia, la rabbia restano a guardare, come impietrite, come le case e come me, immobili, inermi, incapaci di sapere davvero cos'hanno visto passare.
Il tempo non esisteva più, o forse non era mai esistito in quel viaggio disperato.
Non esisteva nemmeno la rabbia, nemmeno il ricordo delle urla di quell'ultimo litigio. Non esisteva nulla. Assolutamente nulla.
Era l'unico modo per lasciarsi tutto quello che lo faceva soffrire alle spalle, come l'asfalto rovente dopo il suo passaggio. Era l'unico modo per dimenticare tutto per un istante, il tempo di quel viaggio. Solo per un attimo per sempre.
Così sfidava la notte. Sfidava il coraggio. Sfidava la possibilità di trovare soluzioni.
Sapeva però che non sfidava se stesso; da se stesso semplicemente fuggiva.
Si rifugiava in quella strana dimensione al di là del tempo e al di là delle emozioni solo per rifugiarsi dalla realtà.
Ma un viaggio come questo non può durare in eterno: la benzina prima o poi finisce, la notte prima o poi finisce,anche la strada prima o poi finisce.
E bisogna scendere. Bisogna respirare. Bisogna piangere. Bisogna anche urlare.
Ma tutto questo un pilota in corsa non lo sa, non può saperlo.
Perchè non può sapere nulla, non può sentire nulla se non il rombo spaventoso tutto intorno, non può vedere nulla se non il suo stesso viaggio.
Ad un tratto Riccardo vide un muretto. Lo vide all'ultimo. Solo all'ultimo.
Poi sentì solo che il rombo si era spento. Vide che la sua gamba era incastrata sotto la moto e ad un tratto iniziò a sentire il dolore. Il dolore di un pezzo di lamiera sotto il ginocchio, sì, anche quello.
Ma soprattutto il dolore silenzioso della sua anima, della sua vita. Quello che era rimasto fermo nel cortile di casa quando aveva acceso il motore, ma che come un'ombra invisibile gli era rimasto accanto, sempre a pochi passi dalla moto, come una spia ben addestrata, pronto ad assalirlo non appena si fosse fermato.
Fulminea. Lasciando dietro sé una scia di rumore tuonante. Quello rimane. Ne percepisco le vibrazioni nell'aria ancora dopo qualche minuto.
Un sogno. No, troppo veloce per essere un sogno.
Riccardo accarezzava il brivido pericoloso della velocità, mentre spezzava le barriere del vento e del tempo. Solo. Con la sua moto.
Non si rendeva davvero conto di sfidare quella linea sottile che divide quasi impercettibilmente la vita dalla morte, la corsa dal baratro, la suggestiva finzione dalla spaventosa realtà, lanciandosi tra le curve come verso il vuoto.
Il freddo congela le lacrime e imprigiona le emozioni dietro la porta del domani.
La percezione della velocità paralizza il dolore, lo lascia indietro, alla partenza, e da esso fugge in un attimo, e ogni attimo se ne allontana di più.
Passando fulmineo per le strade, poteva tenere il resto del mondo fuori dal casco: la paura, l'angoscia, la rabbia restano a guardare, come impietrite, come le case e come me, immobili, inermi, incapaci di sapere davvero cos'hanno visto passare.
Il tempo non esisteva più, o forse non era mai esistito in quel viaggio disperato.
Non esisteva nemmeno la rabbia, nemmeno il ricordo delle urla di quell'ultimo litigio. Non esisteva nulla. Assolutamente nulla.
Era l'unico modo per lasciarsi tutto quello che lo faceva soffrire alle spalle, come l'asfalto rovente dopo il suo passaggio. Era l'unico modo per dimenticare tutto per un istante, il tempo di quel viaggio. Solo per un attimo per sempre.
Così sfidava la notte. Sfidava il coraggio. Sfidava la possibilità di trovare soluzioni.
Sapeva però che non sfidava se stesso; da se stesso semplicemente fuggiva.
Si rifugiava in quella strana dimensione al di là del tempo e al di là delle emozioni solo per rifugiarsi dalla realtà.
Ma un viaggio come questo non può durare in eterno: la benzina prima o poi finisce, la notte prima o poi finisce,anche la strada prima o poi finisce.
E bisogna scendere. Bisogna respirare. Bisogna piangere. Bisogna anche urlare.
Ma tutto questo un pilota in corsa non lo sa, non può saperlo.
Perchè non può sapere nulla, non può sentire nulla se non il rombo spaventoso tutto intorno, non può vedere nulla se non il suo stesso viaggio.
Ad un tratto Riccardo vide un muretto. Lo vide all'ultimo. Solo all'ultimo.
Poi sentì solo che il rombo si era spento. Vide che la sua gamba era incastrata sotto la moto e ad un tratto iniziò a sentire il dolore. Il dolore di un pezzo di lamiera sotto il ginocchio, sì, anche quello.
Ma soprattutto il dolore silenzioso della sua anima, della sua vita. Quello che era rimasto fermo nel cortile di casa quando aveva acceso il motore, ma che come un'ombra invisibile gli era rimasto accanto, sempre a pochi passi dalla moto, come una spia ben addestrata, pronto ad assalirlo non appena si fosse fermato.
lunedì 5 luglio 2010
Finzione letteraria
Rubrica Che ne sarà del mondo? Di Elena Doni
Cari affezionati lettori, questo è l'ultimo articolo per questa rubrica che apparirà su questo giornale. Tra meno di quarantotto ore dirò addio a questa meravigliosa città guardandola farsi sempre più lontana e piccola dal finestrino di un aereo pronto a sorvolare l'oceano; direzione la piovosa, aristocratica, bellissima Londra. Mi sembra già di sentirne l'atmosfera addosso.
Questo è il mio ultimo articolo per New York.
Mi sembra impossibile dover scrivere per lettori che non siano “i miei” , arrivare la mattina in un ufficio diverso, senza quella piccola stampa rossa incorniciata sulla parete. Senza quel “vecchio” stereo sullo scaffale, ormai veterano di guerra nell'era degli ipod touch e della musica scaricata direttamente da youtube, ancora perfetto per ascoltare Jeff Buckley, senza quella pila di scartoffie, lettere, commenti, nuove idee e nuove critiche che Mary lascia ogni mattina sull'angolo destro della mia scrivania -anche stamattina erano esattamente lì, tutto era esattamente lì-. Senza essere passata prima a prendere il mio caffè sulla 55esima , senza essere passata davanti all'edicola di Joe e senza il saluto della Signora Witmann che lavora nel negozio accanto.
Non so ancora se riuscirò a raccontare qualcosa, scrivere di qualcuno, dire a persone che saranno spaventosamente sconosciute che ne sarà del mondo, che ne sarà delle guerre, degli accordi di pace e di cooperazione, di chi soffre la fame e di chi tenta di estinguerla, delle paure e delle piccole gioie della gente comune, delle nostre giornate. Non so come potrò farlo lontana da quello che negli ultimi due anni è stato il mio regno, il mio piccolo gelosissimo e ancor più caotico mondo, qui, in un piccolo angolo di America. Ma l'importante in fondo non sarà come e per chi scriverò io. Ciò che davvero mi interessa sarà che cosa leggerete voi: di qualunque cosa vi parleranno, vi scriveranno, esigete fermamente che vi raccontino il vero, che vi descrivano le cose come stanno, senza pretendere di dirvi ed insegnarvi perchè accadano e quale sia il loro significato. Non lasciate che quasi senza che ve ne possiate accorgere vi privino del diritto e della capacità di giudicare in prima persona e di chiedere trasparenza ed onestà -almeno ai giornali, almeno a chi vi racconta-. Pretendete che vi vengano tutte le vicende importanti, con tutte le loro sfaccettature e con tutti gli scenari che aprono, ma pretendete anche di essere sempre voi a valutare quanto siano davvero importanti e quale sfumatura vi sembra intonarsi meglio con gli altri colori. Soprattutto continuate a leggere, continuate ad andare in edicola da Joe ogni mattina, ad andare in libreria una volta ogni paio di settimane. Continuate a comunicare. E continuate a raccontare.
Cari affezionati lettori, questo è l'ultimo articolo per questa rubrica che apparirà su questo giornale. Tra meno di quarantotto ore dirò addio a questa meravigliosa città guardandola farsi sempre più lontana e piccola dal finestrino di un aereo pronto a sorvolare l'oceano; direzione la piovosa, aristocratica, bellissima Londra. Mi sembra già di sentirne l'atmosfera addosso.
Questo è il mio ultimo articolo per New York.
Mi sembra impossibile dover scrivere per lettori che non siano “i miei” , arrivare la mattina in un ufficio diverso, senza quella piccola stampa rossa incorniciata sulla parete. Senza quel “vecchio” stereo sullo scaffale, ormai veterano di guerra nell'era degli ipod touch e della musica scaricata direttamente da youtube, ancora perfetto per ascoltare Jeff Buckley, senza quella pila di scartoffie, lettere, commenti, nuove idee e nuove critiche che Mary lascia ogni mattina sull'angolo destro della mia scrivania -anche stamattina erano esattamente lì, tutto era esattamente lì-. Senza essere passata prima a prendere il mio caffè sulla 55esima , senza essere passata davanti all'edicola di Joe e senza il saluto della Signora Witmann che lavora nel negozio accanto.
Non so ancora se riuscirò a raccontare qualcosa, scrivere di qualcuno, dire a persone che saranno spaventosamente sconosciute che ne sarà del mondo, che ne sarà delle guerre, degli accordi di pace e di cooperazione, di chi soffre la fame e di chi tenta di estinguerla, delle paure e delle piccole gioie della gente comune, delle nostre giornate. Non so come potrò farlo lontana da quello che negli ultimi due anni è stato il mio regno, il mio piccolo gelosissimo e ancor più caotico mondo, qui, in un piccolo angolo di America. Ma l'importante in fondo non sarà come e per chi scriverò io. Ciò che davvero mi interessa sarà che cosa leggerete voi: di qualunque cosa vi parleranno, vi scriveranno, esigete fermamente che vi raccontino il vero, che vi descrivano le cose come stanno, senza pretendere di dirvi ed insegnarvi perchè accadano e quale sia il loro significato. Non lasciate che quasi senza che ve ne possiate accorgere vi privino del diritto e della capacità di giudicare in prima persona e di chiedere trasparenza ed onestà -almeno ai giornali, almeno a chi vi racconta-. Pretendete che vi vengano tutte le vicende importanti, con tutte le loro sfaccettature e con tutti gli scenari che aprono, ma pretendete anche di essere sempre voi a valutare quanto siano davvero importanti e quale sfumatura vi sembra intonarsi meglio con gli altri colori. Soprattutto continuate a leggere, continuate ad andare in edicola da Joe ogni mattina, ad andare in libreria una volta ogni paio di settimane. Continuate a comunicare. E continuate a raccontare.
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