What if I say you're not like the others?


Point Particle è un blog nato per ospitare le idee e i pensieri di chiunque voglia scriverci. Nella sua pur breve vita, ha accolto e fatto leggere pezzi molto diversi, scritti da persone molto diverse. Pezzi che forse raccontano la storia di chi li ha scritti, o magari l'accarezzano soltanto. Frutti di un'ispirazione che a volte riesce a disporre le lettere una di fianco all'altra proprio in quel modo che ti fa provare qualcosa di speciale. Un'ispirazione che si è manifestata in persone normali, come te e come me. Persone che hanno deciso di condividere qualcosa con chiunque passasse di qui, anziché perdere i propri pensieri nei meandri della mente.
Perché chi deposita qualcosa in questa piccola banca non ha niente da perdere, ma chi apre questa pagina e legge qualche pezzo ha molto da guadagnare.
E allora... Buona lettura!

sabato 5 maggio 2012

La grande depressione


Sono trascorsi 21 anni da quando è incominciato tutto, dalle prime bolle speculative americane del 2008. All'inizio non pensavamo che saremmo arrivati fino a questo punto, non avevamo idea che si stavano aprendo le porte dell'inferno.
La crisi dei debito sovrani europei non era la fine del capitalismo. Era la fine di tutto, del nostro mondo, del nostro tempo, delle nostre vite.
Le prime immagini di Atene in fiamme ci avevano sconvolti; poi il fuoco è arrivato anche da noi. Insieme con la guerra civile. Nelle città, nelle strade, nelle piazze. C'è chi ha combattuto mettendo a ferro e fuoco il Paese, chi lo ha fatto resistendo alla violenza, chi con in mano una pistola, chi con un libro, chi con una Bibbia. Abbiamo lottato e abbiamo perso tutti.
Il nostro Paese non c'è più. Non ci sono più le nostre case, i nostri giardini, le nostre feste. Non è rimasta più nessuna traccia di vera umanità sulle ceneri di questa nostra vecchia Europa. Quella fenice che era rinata sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale è stata colpita a morte, di nuovo. È iniziata la Grande Depressione, la Grande Disperazione, il Grande Incubo.
Non abbiamo più niente. Né il futuro, né la speranza, né l'orgoglio, né l'amore. Forse non siamo più nemmeno capaci di perdono.
È morta la bellezza e con essa sono morti i sogni e pure le illusioni.
All'inizio protestavamo contro la precarietà, adesso preghiamo per avere un lavoro a cottimo che ci dia il pane per una settimana. Ci i ndignavamo di fronte a quei politici corrotti, oggi non sappiamo nemmeno più cosa sia la Politica. Scendevamo in piazza contro l'abolizione dell'articolo 18, ora non esistono più i sindacati. Viviamo di fame e di vergogna.
La Fiat ha chiuso l'ultimo stabilimento, quello di Mirafiori, proprio dietro casa, il 14 giugno 2017. è rimasto lì, un monumento arrugginito per le anime di un'altra storia, di un altro tempo.
Sono  arrivati piano piano i colonizzatori cinesi e indiani. Con la loro ricchezza, con i loro ricatti. Ogni lunedì mattina facciamo la fila per essere presi a lavorare fino al venerdì. Le eccellenze italiane oggi sono vendute a basso costo, i loro sapienti artigiani sono più che servi. Le madri insacatolano le vecchie ricette della tradizione per spedire lontano i prodotti etnici del terzo millennio. Passano la settimana nelle grandi cucine e poi non sanno cosa dare da mangiare ai loro figli la sera.
Siamo tutti prigionieri di un mondo che ci si è rivoltato contro, senza pietà e senza sconti. Ora i ricchi non siamo più noi.
Siamo i prigionieri della caverna di Platone, ma senza speranza di salvezza. Perchè noi arriviamo dalla luce. Ricordiamo il mondo che c'era fuori ma rimaniamo fissi a guardare le ombre riprodotte dal fuoco: le registrazioni televisive di vent'anni fa, unico legame con le illusioni calpestate del vecchio mondo.
Si dice anche che sia morto Berlusconi, in Brasile dove era scappato. Ma nessuno sa se è vero o no.
Non è rimasto nessuno: i ricchi più furbi sono cappati in tempo per andare a fare i ricchi altrove, gli altri non sono stati risparmiati dalla Grande Depressione.
Ho venduto tutto anch'io, a parte qualche libro e un vecchio quadro, l'unica ancora di salvezza, le uniche cose che hanno il sapore di umanità.
Tutti abbiamo scambiato quello che avevamo con il pane. C'è chi ha prostituito il proprio corpo, chi la propria anima. Chi ha venduto i suoi fratelli, chi il proprio Dio.
Oggi si muore di polmonite, di parto, di disperazione. Io avrei voluto diventare giornalista e mi ritrovo a tessere la cronaca dell'orrore, dell'incubo, della miseria. Sono testimone della fame, dell'ingiustizia, del dolore.
Forse i nostri figli -quelli che sopravviveranno- potranno lottare per avere indietro la dignità e la vita. Per loro che non hanno visto consumarsi la discesa nel precipizio forse una speranza c'è. Loro che sono nati nel buio della caverna forse avranno la forza di spezzare le catene e risalire verso la luce del mondo là fuori. Per noi non c'è speranza.

domenica 26 febbraio 2012

L'uomo sul marciapiede

L'aria è gelida e porta con sé un sapore amaro.

Certo è davvero strano il clima al tempo di questo surriscaldamento globale! Di giorno sembra già arrivata la primavera, con il Sole che illumina e riscalda le giornate dei turisti. Però la sera scende di nuovo il freddo. E se rimane fuori dalla porta delle stanze dei loro alberghi e delle vostre case, io lo sento di più. Non lo sento solo io, certo, però vi assicuro che lo sento un po' più di loro, e un po' più di voi.

Vedete, io sono forse quello che meglio incarna lo spirito libero, il cittadino del mondo (di quale mondo poi!), l'uomo sciolto definitivamente dalle catene del consumo e del superfluo.

Ho un po' esagerato, dite? Già, forse!

Ma non l'ho voluto io!

Tutta questa storia del pauperismo di nuovo di moda, l'idea della schiavitù del consumismo, bè, ecco, non mi avrebbe fatto poi così schifo come fa a voi. Come dite, almeno.

Quando possiedi solo te stesso perchè nemmeno il cartone su cui dormi è tuo, inizi a non capire più tanto bene. Quando vedi che nemmeno il cielo è tuo, perchè lo dividi con tutti gli altri, pure con quelli che oltre al cielo hanno già una casa calda e sicura, quando non puoi considerare tuo nemmeno quello squallido metro quadrato di marciapiede fuori da Termini, quando per tutte queste ragioni possiedi davvero solo te stesso, bè, in questo caso la nobiltà dell'ideale che vi sento decantare inizia a vacillare. E a puzzare. Proprio come puzzano i miei vestiti che vi tengono lontani. Anzi, vi dirò, puzza pure di più dei miei vestiti.

Anche se questa idea vi porta ogni tanto, a seconda delle giornate, a provare un deprimente senso di commiserazione. Che in tutta sincerità, mi fa schifo.

Perchè in fondo, nonostante il freddo, lo sporco, il morso della fame, il cartone non mio, l'ingiustizia di un cielo non mio, sono pur sempre io quello libero. Libero nella miseria, è vero, ma comunque più libero di voi.

Ma facciamo un passo indietro. C'è la crisi. E qualcuno allora approfitta dei saldi. Qualcuno ne discute nel corso di una bella conferenza. Qualcuno è spaventato perchè teme di perdere il lavoro. Qualcuno invece teme di non riuscire a trovarlo.

C'è la crisi. Qualcuno ne piange. Qualcuno ride. Qualcuno ne parla al telefonino.

E qualcuno muore sul marciapiede della stazione. Proprio mentre arriva un treno, e un altro invece riparte.

giovedì 23 febbraio 2012

Fantameteo: 23 febbraio 2012

Oggi sole timido e ubriaco. Prendeteci gusto: assaporate la bellezza velata delle strade,la neve sofferente che si lascia ferire e sporcare,ma implora febbraio non mi lasciare, gli alberi impacciati che approcciano la primavera, l'ansia naif e sbronza del traffico mattutino. Coprite i vostri ginocchi:l'umidità fa stalking.In serata cercate un'osteria,possibili precipitazioni di taralli e taglieri misti.e sorridete come i timidi che quei sorrisi lì son pìu potenti delle alabarde spaziali di mazzinga.

martedì 6 dicembre 2011

La commedia del Natale

Le luci di Natale che illuminano il Borgo riflettono tutto l'intricato artificio e la sofisticata finzione di questo Natale. E di tutti i Natali.

Nell'aria risuonano i passi veloci della gente che sembra inseguire solo se stessa dietro all'ultimo regalo, o al primo. La gente che cammina senza fermarsi a guardare, a respirare, la gente che si nasconde sotto queste luci, che nasconde uno sguardo spento, che nasconde una finzione.

Tutti parlano, al telefonino. E nessuno parla. Nessuno si domanda. Nessuno si arrabbia. Tutti recitano perfettamente il copione del Natale. Comprano regali, vanno sempre più di fretta, e comprano i biglietti, quelli più piccoli, con solo lo spazio per gli auguri e non una parola di più. Questo potente rito commerciale, povero proprio perchè ostenta ricchezza e imperativi di consumo, inautentico perchè uguale dappertutto, chiassoso nell'esteriorità ma silenzioso ai cuori, ecco questo Natale ha cancellato il Natale. Quell'altro. Quello fatto di piccole cose, di parole vere, di una tavola che non conosce sprechi, quello che in fondo vorrebbe mettere in discussione la gigantesca macchina frenetica della finzione.

Non il Natale buonista, paternalista, moralista. Non il Natale precario, quello appeso ad un filo sottile.

Una zingara sui gradini della Chiesa non ha nemmeno più voglia di chiedere l'elemosina. L'uomo che vende le caldarroste sorride solo quando si avvicina qualche cliente, se no guarda immobile il fumo delle castagne che sale per sparire offuscato dalle luci.

I passi sono sempre più veloci, sempre più rumorosi, le voci sempre più uguali. Voci di una tristezza profondamente sola e solitaria, unica vera protagonista di questa commedia diretta male.

venerdì 4 novembre 2011

La monarchia inadeguata

La regina è seduta su una poltrona elegante e guarda con sospetto e riprovazione quei ragazzi che stanno in fila sorridenti davanti a lei. Perché la regina deve sedersi su una poltrona? Sente la mancanza del trono del Palazzo reale. Un simbolo antico del suo potere, del suo prestigio che oggi è rinnegato da questa poltrona. Chissà in quanti ci si sono seduti.
Sorride agli studenti ma in realtà li commisera: sembrano degli straccioni nelle loro divise scolastiche, non hanno grazia, nei loro modi e nel loro chiacchiericcio non c’è il rispetto ossequioso che tutti i sovrani in passato hanno ricevuto dai loro sudditi. Un tempo una regina non avrebbe dovuto essere costretta ad incontrarli nelle visite ufficiali.

Commisera soprattutto l’impossibilità di mostrare apertamente il suo disprezzo. Ma che cosa è cambiato? Perché è costretta a sopportare tutto questo? Lei è la regina!

Le mani che sono protette dai guanti bianchi dalla sporcizia del mondo si irrigidiscono e lasciano trapelare il nervosismo dietro cui si nasconde la sua riprovazione. Arrivano vicino a lei due bambine con un mazzolino di fiori. Che orrore! È un affronto! Sono miseri fiorellini di campagna degni dell’ultima contadinella, non si possono offrire ad una regina! Ma deve sorridere, deve ringraziare, mostrare persino gratitudine. Deve toccarli, prenderli in mano, resistere alla tentazione di sbatterli in terra e urlare.

Sorride con lo sguardo severo. Prende tra le mani il primo mazzolino, avendo cura di non sfiorare nemmeno con i suoi guanti bianchi le mani della bambina. Lo accosta al suo vestito, per mostrare come siano delicati raffinati i fiorellini lilla della sua giacca. Ecco il suo rimprovero, il suo ammonimento: questi sono fiori, non i vostri.

Le bambine ridono tra di loro mentre si allontano. Possibile che non si siano accorte del tacito rimprovero? Possibile che non si siano rese conto della loro inadeguatezza e della loro miseria? No, nessuno se n’è accorto. Quel gesto così impertinente è accolto con incomprensibile accondiscendenza da tutti.

Nessuno ha vero rispetto per la regina. Se ce l’avessero non si avvicinerebbero così a lei.

I suoi sudditi non sanno più cosa significa essere sudditi, venerare la propria sovrana, prodigarsi per compiacerla e ammirarla. Da lontano.

Con questa favola dei diritti, in certi giorni si sentono addirittura cittadini. Poveri stolti, non capiscono che tutti i loro diritti, la loro bella Costituzione, sono stati un regalo. Pensano di essersela conquistata. Di essersela meritata. Ed ora davanti alla loro regina si comportano come se stessero davanti ad una celebrità qualsiasi.

Non sono veri sudditi. E quindi lei non è più una vera regina. Ha il suo trono, ma solo a Palazzo reale, i suoi gioielli preziosi e i vestiti raffinati. Ma la corona gliela lasciano mettere solo nelle occasioni importanti. Tenerla sempre non sarebbe in armonia con i tempi di oggi. I tempi di oggi! Ma i tempi di oggi dovrebbero essere quelli della regina! Scanditi dai suoi passi sul marmo, dai suoi gesti, dalle sue parole. E invece sono i suoi gesti ad essere scanditi in base a quelli dei sudditi. Le visite alle scuole, agli ospedali, alle Fondazioni. Lei non avrebbe mai deciso di andarci.

Questo mondo non è degno della sua regina. E soprattutto non si accorge di non esserne degno. È un mondo sbagliato, inadeguato, abietto.

Lo sguardo della regina si infiamma. Non può dire niente. È la regina e non le è concesso esprimere questa banale e inesorabile verità.

Il ministro dell’Istruzione la guarda e pensa che sia lei ad essere così inadeguata per il mondo. Mentre ostenta la sua regalità solo nei suoi guanti bianchi e nei fiorellini sul suo vestito.

È un affresco antico che stride con lo sfondo in cui si muove. C’è una parola impronunciabile: è inadeguata. Per il suo tempo. Per il suo mondo. Per i sudditi che ogni tanto si sentono cittadini.

La sua figura opaca si mostra ancora più sfumata mentre cerca disperatamente di essere una vera regina. Ma è tutto inutile: in questo mondo non c’è più posto per lei.

mercoledì 26 ottobre 2011

Cosa resta dopo il terremoto

Davanti agli occhi, solo le macerie. Immobili. Pesanti. Una furia devastatrice ha lasciato dietro sé l’ombra della morte. E il suo odore.
La città non è più una città: le strade sono ormai cumuli di rovine attraversati dal fango, le case sembrano un quadro che ritrae la vanità piegata e asservita. Tra la polvere e i mattoni rovinati, si riescono a scorgere dei fiori. Non sono diversi da come dovevano apparire prima: ora sono solo più veri. Feriti e recisi in mezzo alle rovine ugualmente ferite. Fino a ieri illuminavano una stanza, avevano un posto preciso nell’ordinata sistemazione della vita non ancora sconvolta. Dopo la scossa della terra da cui erano stati tolti, sono più belli. Sono il simbolo della tragedia, della distruzione, di ciò che cerca disperatamente il proprio posto anche sul palco fatto di macerie, in attesa di un pubblico invisibile che non arriverà. Sono come tutte le altre cose costrette ad abbandonare l’ordine artificiale e che vogliono conquistarsi un posto tra i blocchi caotici e disarmonici dei detriti, dei mobili mutilati, dei cocci, delle schegge, dei brandelli che una volta erano cose, avevano un nome e un posto nella gerarchia del mondo. Ora invece sono tutti indistintamente accozzati, avvinghiati, sommersi l’uno sotto l’altro. Cercano di non rimanere soffocati sotto il peso di tutti gli altri piccoli pezzi di frammenti senza più un nome e senza più un futuro, cercano di rimanere il più in alto possibile, accarezzati dal sole e bagnati dalla pioggia. Così si illudono di sopravvivere al disastro, di resistere, di essere pronti a reinventarsi, a ridiventare qualcosa, a riappropriarsi di un nome e di una funzione.
In realtà saranno solo i primi dei loro compagni di sventura ad essere portati via dalle ruspe.